Will ti presento Will
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a division of Penguin Young Readers Group, a member of Penguin Group (USA) Inc. Nota alla traduzione Nel libro vengono usati alcuni acronimi tipici del linguaggio delle chat e di Internet. Questo è il loro significato: ttyl è l’acronimo di Talk To You Later (ci parliamo dopo) lol è l’acronimo di Laughing Out Loud (risata fragorosa) rofl è l’acronimo di Rolling On the Floor Laughing (mi rotolo per terra dal ridere). Tiny in italiano ha il significato di minuto, minuscolo. Grafica di copertina: Roberto Luciani Immagini di copertina: © Marnie Burkhart/Corbis; © moodboard/Corbis Art director: Cecilia Flegenheimer I Edizione 2011 © 2011 – EDIZIONI PIEMME Spa
John Green & David Levithan
Will ti presento Will
Traduzione di Fabio Paracchini
A David Leventhal (per essere così vicino) DL A Tobias Huisman JG
capitolo uno Quando ero piccolo mio papà mi diceva sempre: «Will, puoi sceglierti gli amici, puoi sceglierti le ragazze, ma non puoi sceglierti le ragazze degli amici». A otto anni mi sembrava un’osservazione ragionevolmente astuta, ma si dà il caso che invece fosse sbagliata per una serie di motivi. Tanto per cominciare non è vero che ti puoi scegliere gli amici, sennò non sarei mai finito con Tiny Cooper. Tiny Cooper non è la persona più gay del mondo, e non è la persona più grossa
del mondo, ma credo possa essere la persona più grossa del mondo a essere molto, molto gay e anche la persona più gay del mondo a essere molto, molto grossa. Tiny è il mio migliore amico dalla quinta elementare, a parte tutto l’ultimo semestre, quando era troppo occupato a scoprire l’immensa vastità della propria gayezza e io ero troppo occupato ad avere per la prima volta in vita mia un vero Gruppo di Amici garantito al 100%, che hanno finito per Non Parlarmi Mai Più in seguito a due piccole trasgressioni: 1. Dopo che un membro del consiglio scolastico ha sclerato a proposito della presenza di gay negli spogliatoi, io ho difeso il diritto di Tiny Cooper a essere
sia enorme (e quindi il miglior elemento della linea d’attacco della nostra merdosissima squadra di football) sia gay in una lettera al giornale della scuola che ho avuto la stupida idea di firmare. 2. Questo tizio di nome Clint del Gruppo di Amici stava parlando della lettera a pranzo e mentre ne parlava mi ha dato dello strillacagne e io non sapevo cosa fosse uno strillacagne per cui gli ho chiesto: «Cosa vuoi dire?» e lui mi ha dato di nuovo dello strillacagne e a quel punto io ho detto a Clint di andare affanculo e ho preso il mio vassoio e me ne sono andato. Il che credo significhi che tecnicamente sono stato io a lasciare il
Gruppo di Amici, anche se a me è sembrato il contrario. A dire la verità non ho mai avuto l’impressione di piacere a nessuno di loro, però mi cagavano, che non è roba da niente. E adesso non mi cagano più e io sono una specie di reietto sociale. A meno di non contare Tiny. Cosa che immagino di dover fare. Insomma, siamo al penultimo anno delle superiori, qualche settimana dopo le vacanze di Natale. Io me ne sto seduto al Mio Posto a lezione di mate, quando Tiny entra ballando il valzer con la maglia della squadra infilata dentro i pantaloni da fighetto anche se il campionato è finito da un pezzo. Ogni
giorno Tiny riesce miracolosamente a incunearsi nella sedia-banco accanto alla mia, e ogni giorno la cosa mi lascia di stucco. Tiny si strizza nella sua sedia, poi si volta verso di me e sussurra a voce altissima (perché in realtà vuole che sentano anche gli altri): «Sono innamorato». Io sollevo gli occhi al cielo, perché Tiny si innamora un’ora sì e quella dopo pure di qualche povero ragazzo. Sono tutti identici: magrissimi, sudati e abbronzati (e quest’ultima cosa è un vero abominio, perché qualsiasi abbronzatura a febbraio a Chicago è un falso e i ragazzi con l’abbronzatura falsa - non mi interessa se sono gay o no sono ridicoli).
«Sei così cinico» dice Tiny facendo svolazzare una mano. «Non sono cinico, Tiny» rispondo. «Sono pratico.» «Sei un robot» dice lui. Tiny pensa che io sia incapace di quelle che gli esseri umani chiamano emozioni perché non ho più pianto dopo il mio settimo compleanno, quando ho visto il film Charlie - Anche i cani vanno in paradiso. Suppongo che avrei dovuto capire già dal titolo che non sarebbe andato a finire bene, ma a mia discolpa posso dire che avevo sette anni. E comunque da allora non ho più pianto. Non capisco che senso abbia. E poi ho scoperto che piangere è quasi (a parte tipo per la morte di parenti e cose del
genere) totalmente evitabile se segui due semplicissime regole: 1. Fregatene. 2. Stai zitto. Tutte le cose più brutte che mi siano mai successe sono nate dall’avere infranto una di queste regole. «Io so che l’amore esiste perché lo sento» dice Tiny. A quanto pare la lezione è iniziata senza che ce ne accorgessimo, perché il professor Applebaum - che teoricamente ci insegna matematica ma in realtà mi sta insegnando soprattutto che il dolore e la sofferenza devono essere sopportati stoicamente - dice: «Che cosa senti, Tiny?». «L’amore!» dice Tiny. «Sento l’amore.» E tutti quanti si voltano e scoppiano a ridere o grugniscono in
faccia a Tiny, e visto che sono seduto accanto a lui e lui è il mio migliore e unico amico ridono e grugniscono anche in faccia a me, il che è esattamente il motivo per cui non avrei mai scelto Tiny Cooper come amico. Attira troppo l’attenzione. E poi ha un’incapacità patologica di seguire le mie due regole. E così se ne va in giro ballando il valzer, restandoci male per qualsiasi cosa e parlando a manetta, e poi si stupisce quando il mondo gli dà addosso. E naturalmente, per la legge transitiva, questo vuol dire che il mondo dà addosso anche a me. Dopo la lezione io me ne sto lì a fissare il mio armadietto chiedendomi come ho fatto a lasciare a casa La
lettera scarlatta, quando arriva Tiny insieme ai suoi amici della Gay-Straight Alliance, l’associazione per l’amicizia tra gay ed etero: Gary (che è gay) e Jane (che potrebbe esserlo ma anche no, non gliel’ho mai chiesto). Tiny mi fa: «A quanto pare tutti pensano che a mate abbia dichiarato pubblicamente il mio amore per te. Io innamorato di Will Grayson: non è la stronzata più grossa che abbiate mai sentito?». «Fantastico» dico io. «Sono tutti quanti degli idioti totali» dice Tiny. «Come se ci fosse qualcosa di sbagliato nell’essere innamorati.» Gary a questo punto sospira. Se si potessero davvero scegliere gli amici, Gary sarebbe nella mia Top Ten. Tiny
ha fatto amicizia con Gary e Jane e il ragazzo di Gary, Nick, quando è entrato nella GSA nel periodo in cui io me la facevo con il Gruppo di Amici. Conosco poco Gary, perché è soltanto da un paio di settimane che ho ricominciato a frequentare Tiny, ma mi sembra la persona più normale con cui Tiny abbia mai fatto amicizia. «C’è una certa differenza» fa notare Gary «tra essere innamorati e annunciarlo a lezione di mate». Tiny attacca a parlare e Gary lo interrompe. «Cioè, non fraintendermi. Hai tutti i diritti di essere innamorato di Zach.» «Billy» dice Tiny. «Aspetta, cosa è successo a Zach?» chiedo io, perché avrei giurato che
quello di cui era innamorato Tiny a mate fosse uno Zach. Ma sono passati quarantasette minuti dalla sua dichiarazione, per cui magari ha cambiato obiettivo. Tiny ha avuto più o meno 3900 ragazzi. Metà solo via Internet, tra l’altro. Gary, che sembra sconcertato quanto me dalla comparsa di questo Billy, si appoggia agli armadietti e picchia piano la testa contro l’acciaio. «Tiny, il fatto che tu sia una zoccola non fa per niente bene alla nostra causa.» Io guardo Tiny e dico: «Possiamo mettere a tacere le voci sul nostro amore? Mi creano qualche problema con le signore». «Anche chiamarle “signore” non
aiuta» mi dice Jane. Tiny scoppia a ridere. «No, davvero,» gli dico «questa storia mi fa sempre andare in bianco». Tiny mi guarda seriamente per un istante e fa un piccolo cenno del capo. «E per la cronaca» dice Gary «potresti farti di peggio che Will Grayson». «Ed è quello che fa» faccio notare. Tiny si esibisce in una mossetta di danza classica nel mezzo del corridoio, fa una risata e urla: «Caro Mondo, io non sono innamorato di Will Grayson. Però c’è una cosa che dovreste sapere tutti quanti su Will». E poi inizia a cantare con una voce da baritono degna di un musical di Broadway: «Io non
posso vivere senza di lui!». Tutti scoppiano a ridere e urlano e applaudono mentre Tiny continua la sua serenata e io me ne vado a lezione di inglese. È un bel pezzo di strada e sembra ancora più lunga quando qualcuno ti ferma per chiederti com’è farsi sodomizzare da Tiny Cooper e come fai a trovare il “pisellino gay” di Tiny Cooper sotto il suo pancione. Io reagisco come faccio sempre: abbassando lo sguardo e tirando dritto. Lo so che scherzano. In questi casi Tiny ha sempre risposte brillanti, tipo: «Per essere uno che teoricamente non mi vuole, passi un sacco di tempo a pensare e a parlare del mio pisello». Forse funziona per Tiny, ma non per me. Per
me funziona starmene zitto. Seguire le regole. Così me ne sto zitto e me ne frego e continuo a camminare e poco dopo è finita. L’ultima volta che ho detto qualcosa degno di nota è stato quando ho scritto quella cavolo di lettera al giornale su quel cavolo di Tiny Cooper e sul suo cavolo di diritto di essere una cavolo di stella della nostra orrenda squadra di football. Non sono per niente pentito di avere scritto la lettera: rimpiango solo di averla firmata. Firmarla è stata una chiara violazione della regola sullo starsene zitti, e guarda dove mi ha portato: da solo di martedì pomeriggio a fissare le mie All Star nere.
Quella sera, subito dopo che ho ordinato la pizza per me e i miei genitori (che come sempre faranno tardi in ospedale), Tiny mi chiama e spara a raffica: «Pare che i Neutral Milk Hotel facciano una reunion all’Hideout e la cosa non verrà pubblicizzata e nessuno ne sa un cazzo ed è una figata pazzesca, Grayson!». «Figo!» urlo. Se c’è una cosa che si può dire di Tiny è che ogni volta che succede qualcosa che vale la pena lui è sempre il primo a venirlo a sapere. Ora, io di solito non sono uno che si agita per niente, ma i Neutral Milk Hotel mi hanno tipo cambiato la vita. Nel 1998 hanno pubblicato un disco assolutamente fantastico che si intitolava In the
Aeroplane Over the Sea e da allora nessuno ne ha saputo più niente, a quanto pare perché il loro cantante vive in una caverna in Nuova Zelanda. Ma in ogni caso è un genio. «Quando?» «Boh. L’ho appena saputo. Adesso chiamo anche Jane. I Neutral le piacciono quasi come a te. Ok, facciamo adesso. Subito. Andiamo subito all’Hideout.» «Sono già per strada» rispondo mentre apro la porta del garage. Chiamo mia madre dall’auto. Le dico che i Neutral Milk Hotel suonano all’Hideout e lei dice: «Chi? Cosa? Che cavolo stai dicendo?», io allora le canticchio qualche strofa di una delle
loro canzoni e mamma dice: «Oh, la conosco. È nella playlist che mi hai fatto tu» e io dico: «Giusto» e lei dice: «Devi essere a casa per le undici» e io dico: «Mamma, è un evento storico. La storia non ha il coprifuoco» e lei dice: «A casa alle undici» e io dico: «E va bene, cacchio» e poi lei deve andare a tagliare via un cancro a qualcuno. Tiny Cooper vive in una megavilla insieme ai genitori più ricchi del mondo. Non credo che nessuno dei due abbia un lavoro, ma sono così disgustosamente ricchi che Tiny non vive neanche nella megavilla: vive da solo nella dépendance della megavilla. E in quella cazzo di dépendance ha tre camere da letto e un frigorifero sempre pieno di
birra e i suoi non rompono mai, così ce ne possiamo stare lì seduti tutto il giorno a giocare ai videogame e bere Miller Lite, a parte il fatto che Tiny odia i videogame e io odio la birra, così di solito giochiamo a freccette e ascoltiamo musica e parliamo e studiamo. Ho appena iniziato a dire la T di Tiny quando lui esce di corsa dalla porta con un mocassino infilato in un piede e l’altro in mano e urla: «Vai, Grayson, vai, vai!». Per strada fila tutto alla grande. Non c’è traffico sulla Sheridan e io sterzo a destra e a sinistra tipo Formula Uno e ascoltiamo la mia canzone preferita dei NMH, Holland, 1945, e poi prendiamo Lake Shore Drive e le onde del Lago
Michigan si infrangono sugli scogli e abbiamo i finestrini socchiusi per far spannare i vetri e l’aria sporca e fredda e tonificante entra nell’auto e mi piace un casino e mi piace un casino questa canzone e Tiny sta dicendo: «Mi piace un casino questa canzone» mentre si incasina meglio i capelli. Il che mi fa pensare che i Neutral Milk Hotel mi vedranno proprio come io vedrò loro, così mi do un’ultima occhiata nello specchietto retrovisore. La mia faccia mi sembra troppo quadrata e gli occhi troppo grossi, come se fossi sempre sorpreso, ma non c’è niente di quello che è sbagliato in me che possa sistemare.
L’Hideout è un bar di assi di legno incastrato tra una fabbrica e un palazzo del Ministero dei Trasporti. Come locale non ha niente di vistoso, ma c’è la fila alla porta anche se sono solo le sette. Così mi metto in coda per un po’ con Tiny finché non arrivano Gary e Jane-Forse-Gay. Sotto la giacca aperta Jane porta una maglietta con la scollatura a V con sopra scarabocchiato a mano il logo dei Neutral Milk Hotel. È comparsa nella vita di Tiny più o meno quando ne sono uscito io, per cui non è che ci conosciamo granché. Però devo dire che al momento è al quarto posto tra i miei migliori amici e a quanto pare ha buongusto in fatto di musica.
Mentre aspettiamo fuori dall’Hideout con un freddo che ti fa scricchiolare la faccia lei mi dice ciao senza guardarmi e io le dico ciao e poi lei dice: «È una band assolutamente strafiga» e io le dico: «Lo so». Si tratta probabilmente della conversazione più lunga che abbia mai avuto con Jane. Tiro qualche calcio alla ghiaia e guardo una nuvoletta di polvere in miniatura circondarmi il piede e poi dico a Jane quanto mi piace Holland, 1945 e lei dice: «A me piacciono le loro cose meno facili. Quelle più polifoniche e rumorose». Io mi limito ad annuire, nella speranza che continui a credere che io sappia cosa voglia dire polifonico.
Una cosa di Tiny Cooper è che non gli puoi sussurrare nelle orecchie nemmeno se sei ragionevolmente alto come me perché quello stronzo è quasi due metri, per cui gli devi picchiettare un dito sulle spalle da gigante e poi fargli segno che vorresti sussurrargli all’orecchio e a quel punto lui si piega un po’ e io dico: «Senti, ma Jane è della parte gay o della parte etero della Gay-Straight Alliance?». Tiny avvicina la bocca al mio orecchio e sussurra: «Non lo so. Credo che abbia avuto un ragazzo al primo anno». Io gli faccio notare che lui ha avuto tipo 11.542 ragazze al primo anno e allora Tiny mi tira un pugno sul braccio in un modo che lui pensa sia
divertente ma che in realtà causa danni permanenti al sistema nervoso. Gary sta strofinando le braccia di Jane per scaldarla quando finalmente la fila inizia a muoversi. Poi tipo cinque secondi dopo vediamo questo ragazzo con l’aria disperata ed è esattamente il tipo di ragazzo piccolo-biondoabbronzato che piace a Tiny Cooper e così Tiny dice: «Cosa c’è che non va?» e il ragazzo risponde: «È vietato ai minori di ventun anni». «Tu!» balbetto rivolto a Tiny. «Razza di strillacagne!» Continuo a non sapere cosa voglia dire, ma mi sembra una parola appropriata alla situazione. Tiny Cooper fa una smorfia con le labbra e aggrotta la fronte. Si volta
verso Jane. «Ce l’hai un documento falso?». Jane annuisce. Gary aggiunge: «Anch’io» e io serro i pugni e digrigno i denti e vorrei soltanto urlare e invece dico: «Vaffanculo, io vado a casa» perché io non ce l’ho un documento falso. Ma poi Tiny dice a voce superbassa e superveloce: «Gary, tirami un pugno in faccia più forte che puoi quando gli faccio vedere la patente, e poi tu, Grayson, mi devi passare dietro le spalle come se lavorassi nel locale» e poi nessuno dice niente per un po’ finché Gary dice a voce troppo alta: «Mmm, io non lo so neanche, come si tira un pugno». Ci stiamo avvicinando al buttafuori che ha un grosso tatuaggio
sulla testa rasata per cui Tiny borbotta: «Sì, che lo sai. Dacci dentro». Io resto un po’ indietro a guardare Jane che dà la sua patente al buttafuori. Il tizio punta una torcia sul documento, lancia un’occhiata a Jane e poi glielo ridà. Poi tocca a Tiny. Faccio una serie di respiri velocissimi perché una volta ho letto che se uno ha un sacco di ossigeno nel sangue tende a calmarsi, e poi guardo Gary che si solleva in punta di piedi e tira indietro il braccio e assesta una centra nell’occhio destro di Tiny. La testa di Tiny scatta all’indietro e Gary urla: «Oh, cazzo, ahi, ahi, la mia mano!» e il buttafuori scatta per prendere Gary e poi Tiny Cooper si volta in modo da mettersi tra me e il
buttafuori, e mentre lui si volta io entro nel bar come se Tiny Cooper fosse la mia porta girevole. Una volta dentro vedo il buttafuori che tiene Gary per le spalle e Gary che fa delle smorfie e si guarda la mano. Poi Tiny appoggia una mano sulla spalla del buttafuori e dice: «Ehi, stavamo solo cazzeggiando. Bel colpo, Dwight». Mi ci vuole un minuto per capire che Gary è Dwight. O Dwight è Gary. Il buttafuori dice: «Ti ha tirato un pugno in faccia, cazzo» e Tiny dice: «Me ne doveva uno» e poi spiega al buttafuori che fanno parte della squadra di football della DePaul University e che prima in palestra Tiny aveva perso una scommessa o qualcosa del genere. Il
buttafuori dice che lui al liceo giocava nella linea d’attacco e poi all’improvviso iniziano a chiacchierare amabilmente mentre il buttafuori dà un’occhiata alla patente straordinariamente falsa di Gary, e poi siamo tutti e quattro dentro l’Hideout con i Neutral Milk Hotel e un centinaio di sconosciuti. Il mare di persone che circonda il bancone si apre e Tiny prende un paio di birre e me ne porge una. Declino l’offerta. «Perché Dwight?» chiedo. E Tiny dice: «Sulla sua patente lui è Dwight David Eisenhower IV». E io dico: «Ma dove cavolo ve li siete procurati, quei documenti falsi?» e Tiny dice: «In un posto». E io decido che me
la devo procurare anch’io, una patente falsa. Dico: «Alla fine mi sa che la voglio, una birra» soprattutto perché voglio qualcosa da tenere in mano. Tiny mi passa quella che ha già iniziato a bere e io mi avvicino al palco senza Tiny e senza Gary e senza Jane-Forse-Gay. Siamo solo io e il palco, che in questo locale è alto soltanto mezzo metro, per cui se il cantante dei Neutral Milk Hotel fosse particolarmente basso - tipo sul metro e venti - lo potrei guardare dritto negli occhi. Qualcun altro inizia ad avvicinarsi al palco e nel giro di poco tempo c’è un sacco di gente. Sono già stato qui per dei concerti non vietati ai minori, ma non è mai stato così: la birra
che non ho ancora bevuto (e che non intendo bere) che mi suda tra le mani, gli sconosciuti pieni di piercing e tatuaggi attorno a me. Chiunque sia dentro l’Hideout in questo momento è più figo dei membri del Gruppo di Amici. Queste persone non pensano che ci sia qualcosa di sbagliato in me, non si accorgono neanche di me. Danno per scontato che io sia uno di loro, il che fa di questo momento lo zenit della mia carriera liceale. Sono qui, in una serata vietata ai minori nel miglior locale della seconda città d’America e mi sto preparando per essere una delle duecento persone che vedranno il concerto della reunion di una delle più grandi band sconosciute del decennio
scorso. Quattro tizi escono sul palco e anche se non assomigliano particolarmente ai membri dei Neutral Milk Hotel mi dico che in fondo ho soltanto visto le loro foto sul web. Ma poi iniziano a suonare. Non so bene come descrivere la musica di questa band. Sembra il rumore di centomila donnole che vengono gettate dentro un oceano bollente. E poi il tizio comincia a cantare: Lei mi amava, yeah ma adesso mi odia. Lei mi scopava, fratello ma adesso esce con qualcun altro con qualcun altro.
Escludendo una lobotomia prefrontale non c’è proprio verso che il cantante dei Neutral Milk Hotel possa pensare, per non parlare di scrivere, per non parlare d i cantare, un testo del genere. E poi capisco tutto: ho aspettato fuori in quel freddo grigio e puzzolente di gas di scarico e ho causato la probabile rottura delle ossa della mano di Gary per sentire dei tizi che evidentemente non sono i Neutral Milk Hotel. E anche se non lo vedo in mezzo alla folla di fan dei NMH zittiti e sbalorditi che mi circondano, urlo immediatamente: «Ma vaffanculo, Tiny Cooper!». Alla fine della canzone i miei sospetti vengono confermati quando il cantante
dice a un pubblico sprofondato in un silenzio attonito: «Grazie! Grazie! I NMH non sono riusciti a venire, ma noi siamo gli Ashland Avenue e siamo qui per spaccare!». No, penso io. Voi siete gli Ashland Avenue e siete qui per far cagare. Qualcuno mi dà un colpetto sulla spalla e io mi volto e mi ritrovo a guardare questa ragazza incredibilmente figa di vent’anni e qualcosa con un piercing sotto il labbro, i capelli rosso fuoco e gli anfibi. Mi dice: «Noi pensavamo che questa sera suonassero i Neutral Milk Hotel?» e ci mette anche un punto di domanda alla fine, e io abbasso lo sguardo e dico: «Io...». Mi blocco per un secondo e poi dico: «...anche. Sono qui anch’io per loro».
La ragazza appoggia la bocca al mio orecchio per urlare sopra l’affronto atonale e aritmico alla pubblica decenza che è la musica degli Ashland Avenue: «Gli Ashland Avenue non sono i Neutral Milk Hotel». Il casino che regna nel locale o il fatto di non conoscerla mi rendono loquace e le urlo di rimando: «Li fanno sentire ai terroristi per costringerli a confessare». La ragazza sorride ed è solo a questo punto che mi rendo conto che si è accorta della nostra differenza d’età. Mi chiede dove vado a scuola e io le dico: «Evanston» e lei dice: «Fai il liceo?» e io dico: «Sì, ma non dirlo al barista» e lei dice: «Adesso mi sento una vera pervertita» e io dico: «Perché?» e lei
scoppia semplicemente a ridere. Lo so di non piacere davvero a questa ragazza, ma mi sento comunque vagamente figo. E poi una mano enorme mi cala sulla spalla e io la guardo e vedo l’anello della scuola che porta al mignolo da quando ha finito le medie e capisco subito che è Tiny. E pensare che qualche idiota sostiene che tutti i gay ne capiscono di moda. Mi volto e vedo Tiny Cooper che sta versando un fiume di lacrime. Una sola delle lacrime di Tiny basterebbe per affogare un gattino. Mimo con la bocca le parole COSA C’È? perché gli Ashland Avenue fanno cagare a un volume troppo alto perché mi possa sentire e Tiny si limita a passarmi il suo
telefono e poi se ne va. Vedo la bacheca di Facebook di Tiny con selezionato un aggiornamento di stato. Zach + ci penso + penso che hai rovinato una grande amicizia. Però continuo a pensare che tiny è un gran figo. Spingo via un paio di tizi per raggiungere Tiny e gli abbasso la spalla e gli urlo all’orecchio: «BELLA MERDA» e Tiny urla: «SONO STATO LASCIATO CON UN AGGIORNAMENTO DI STATO» e io rispondo: «HO VISTO. CIOÈ, AVREBBE POTUTO MANDARTI ALMENO UN SMS O UNA MAIL O UN PICCIONE VIAGGIATORE». «E ADESSO COSA FACCIO?» mi
urla Tiny all’orecchio, e io vorrei dirgli: «Ti cerchi uno che magari riesce a non usare tre volte lo stesso verbo in una sola frase» e invece non faccio altro che scrollare le spalle e portarlo via dagli Ashland Avenue, verso il bancone. Il che si rivela un errore. Poco prima che raggiungiamo il bancone vedo Jane-Forse-Gay accanto a un tavolino. Mi dice che Gary se n’è andato disgustato. «Sembra che siano stati gli Ashland Avenue a organizzare la bufala» dice. Io dico: «Ma nessun fan dei NMH ascolterebbe mai questo schifo». Jane mi guarda tutta imbronciata e con gli occhioni spalancati e mi fa: «Il chitarrista è mio fratello». Io mi sento una merda totale e dico: «Oh, scusa». E
lei dice: «Cazzo, stavo scherzando. E se fosse vero lo ripudierei». A un certo punto della nostra conversazione di quattro secondi sono riuscito a perdere di vista Tiny, che è una bella impresa, così dico a Jane della bacheca della vergogna di Tiny e lei sta ancora ridendo quando Tiny arriva al nostro tavolo con un vassoio rotondo su cui ci sono sei bicchierini pieni di un liquido verdastro. «Io non bevo» ricordo a Tiny, e lui annuisce. Spinge un bicchierino verso Jane e Jane scuote la testa. Tiny svuota un bicchierino in un sorso, fa una smorfia ed espira. «Sembra di avere in bocca il cazzo in fiamme di Satana» dice Tiny, e poi spinge un altro
bicchierino verso di me. «È molto invitante,» dico io «ma passo». «Come ha fatto» strilla Tiny (bicchierino) «a lasciarmi» (altro bicchierino) «sul suo PROFILO dopo che gli ho detto che lo AMAVO» (bicchierino). «Lo amo davvero, Grayson. Lo so che pensi che io dica stronzate, ma ho capito che lo amavo dal momento in cui ci siamo baciati. Porca troia. E adesso cosa faccio?» E poi soffoca un singhiozzo con l’ultimo bicchierino. Jane mi tira la manica della camicia e si china verso di me. Sento il suo alito caldo sul collo mentre mi dice: «Quando gli salgono questi bicchierini avremo un bel problema» e decido che Jane ha
ragione e comunque gli Ashland Avenue sono terrificanti, per cui dobbiamo andarcene a gambe levate dall’Hideout. Mi volto per dire a Tiny che è ora di andare, ma è scomparso. Mi giro di nuovo verso Jane, che sta guardando in direzione del bancone con un’espressione molto preoccupata. Poco dopo Tiny torna. Questa volta grazie a Dio ha solo due bicchierini. «Bevi con me» dice, e io scuoto il capo, ma poi Jane mi tira una gomitata nella schiena e capisco che mi devo beccare una pallottola al posto di Tiny. Ficco una mano in tasca e do le chiavi della mia auto a Jane. L’unico modo per impedirgli di bere tutta quella roba verdeplutonio è tracannarne un po’
anch’io. Così prendo il bicchierino e Tiny dice: «Affanculo Zach, Grayson. Affanculo tutti» e io dico: «Alla salute» e bevo e quel liquido mi tocca la lingua ed è come una Molotov accesa e io non riesco a trattenermi e sputo tutto quanto sulla maglietta di Tiny Cooper. «Un Jackson Pollock monocromatico» dice Jane, e poi fa a Tiny: «Dobbiamo schizzare. Questa band è come una devitalizzazione senza anestesia». Io e Jane usciamo insieme, immaginando (a ragione, scopriamo poco dopo) che Tiny ci seguirà con addosso il mio sputazzo di scorie nucleari. Dato che non sono riuscito a bere nessuno dei due alcolici che Tiny mi ha offerto, Jane mi restituisce le
chiavi dell’auto con un lancio ad arco perfetto. Le prendo al volo e mi metto al volante dopo che Jane si è infilata dietro. Tiny crolla sul sedile del passeggero. Avvio il motore e il mio appuntamento con una monumentale delusione acustica giunge finalmente a termine. Durante il viaggio verso casa non ci penso quasi perché Tiny continua a blaterare di Zach. Tipico di Tiny: i suoi problemi sono così grossi che i tuoi ci si possono nascondere dietro. «Come si fa a sbagliarsi così tanto su qualcosa?» sta chiedendo Tiny con in sottofondo il rumore infernale della canzone dei NMH preferita da Jane (nonché quella che a me piace meno). Sto costeggiando Lake Shore e sento
Jane che canta sul sedile posteriore, un po’ stonata ma meno di quanto lo sarei io se cantassi di fronte ad altre persone, cosa che non faccio in base alla Regola Sullo Starsene Zitti. Tiny sta dicendo: «Se non ti puoi fidare del tuo cuore, di cosa puoi fidarti?». E io dico: «Puoi fidarti del fatto che, se tieni a qualcosa, va a finire male», il che è vero. Se tieni a qualcosa non è che a volte ci stai male. Ci stai sempre male. «Ho il cuore a pezzi» dice Tiny, come se non gli fosse mai successo prima, come se non fosse mai successo a nessun altro. E forse è proprio questo il problema: forse ogni nuova rottura a Tiny sembra così radicalmente nuova che in un certo senso è vero che non è
mai successo prima. «E tu nommi shtai aiutando» aggiunge, ed è a quel punto che mi accorgo che sta biascicando. Se non troviamo traffico tra dieci minuti siamo a casa sua. E poi dritto a letto. Ma non posso guidare alla stessa velocità con cui Tiny sta crollando. Quando esco da Lake Shore - sei minuti all’arrivo - oltre a biascicare sta anche frignando e continua a delirare su Facebook e sulla morte delle buone maniere eccetera. Le mani dalle unghie smaltate di nero di Jane stanno massaggiando le spalle elefantesche di Tiny, che però sembra non riuscire a smettere di piangere e io brucio tutti i semafori mentre la Sheridan si dipana lentamente davanti a noi e il moccio e le
lacrime si mescolano finché la maglietta di Tiny è solo uno straccio bagnato. «Quanto manca?» chiede Jane, e io dico: «Abita vicino alla Central» e lei dice: «Cazzo. Stai calmo, Tiny. Hai solo bisogno di dormire un po’, piccolo. Domani starai già un po’ meglio». Finalmente svolto nel vialetto e giro attorno alle buche finché non arriviamo alla dépendance di Tiny. Salto fuori dall’auto e spingo in avanti il mio sedile in modo che possa uscire anche Jane. Poi passiamo sull’altro lato, Jane apre la portiera, si allunga sopra Tiny, riesce a fare un gioco di prestigio per slacciargli la cintura di sicurezza e poi dice: «Va bene, Tiny. È ora di andare a letto» e Tiny dice: «Sono un idiota» e
poi molla un singhiozzo che probabilmente fa saltare i sismografi fino in Kansas. Però si alza in piedi e barcolla verso la porta sul retro. Lo seguo per assicurarmi che arrivi fino al letto. È una buona idea, perché in effetti non ci arriva. Si blocca tre passi dopo essere entrato in salotto. Si volta e mi fissa strizzando gli occhi come se non mi avesse mai visto prima e non capisse cosa ci faccio in casa sua. Poi si sfila la maglietta. Mi sta ancora guardando con un’espressione interrogativa quando dice con un tono perfettamente sobrio: «Grayson, deve succedere qualcosa» e io gli faccio: «Eh?» e Tiny dice: «Perché altrimenti potremmo finire
come tutti quei tizi all’Hideout». Io sto per dire di nuovo eh? perché quei tizi erano molto più fighi dei nostri compagni di classe e anche molto più fighi di noi, ma poi capisco cosa vuole dire. Vuole dire: e se diventassimo degli adulti che aspettano una band che non tornerà mai più? Mi accorgo che Tiny ha lo sguardo vacuo e ondeggia avanti e indietro come un grattacielo al vento. E poi cade a faccia in giù. «Oh, cavoli» dice Jane alle mie spalle, e solo a questo punto mi accorgo che c’è anche lei. Tiny ha ricominciato a piangere con la faccia sepolta nel tappeto. Guardo Jane per un po’ e vedo un sorriso comparire lentamente sul suo volto. La sua faccia cambia
completamente quando fa questo sorriso che le solleva le sopracciglia e mette in mostra dei denti perfetti. Non lo avevo mai notato, quel sorriso. Diventa carina tanto all’improvviso che è quasi come un trucco di magia... ma non è che la desideri o roba del genere. Non vorrei sembrare uno stronzo, ma Jane non è il mio tipo. Ha i capelli disastrosamente ricci e se ne sta quasi sempre in giro con i ragazzi. A me piacciono le ragazze un po’ più femminili. E per dirla tutta non mi piace più di tanto nemmeno il mio tipo di ragazza, figuriamoci gli altri tipi. Non che io sia asessuato... è solo che trovo insopportabili i Grandi Drammi dell’Amore. «Portiamolo a letto» dice alla fine
Jane. «Non possiamo lasciare che i suoi lo trovino così domani mattina.» Mi inginocchio e dico a Tiny di alzarsi, ma lui continua a piangere e alla fine io e Jane lo giriamo sul fianco sinistro e poi sulla schiena. Gli monto sopra, abbasso le braccia e lo afferro sotto le ascelle. Jane fa lo stesso sull’altro lato. «Uno» dice Jane, e io dico: «Due» e lei dice: «Tre». Ma non succede niente. Jane è minuta: vedo il suo bicipite svuotarsi mentre flette i muscoli. E nemmeno io riesco a sollevare la mia metà di Tiny, così decidiamo di lasciarlo lì. Mentre Jane gli sistema sopra una coperta e gli infila un cuscino sotto la testa sta già russando.
Stiamo per andarcene quando tutto il moccio che Tiny ha prodotto piangendo si mette in moto nello stesso istante e lui inizia a fare questo suono orrendo, come se russasse ma molto più sinistro e umido. Mi avvicino alla sua faccia e vedo che sta inspirando ed espirando i disgustosi filamenti di moccio prodotti durante il suo frignathon. Ha dentro tanta di quella roba che ho paura che si strozzi. «Tiny» dico. «Devi soffiarti il naso, amico» ma lui non batte ciglio. Così gli avvicino la bocca all’orecchio e urlo: «Tiny!». Niente. Poi Jane gli tira uno schiaffo in faccia, anche abbastanza forte. Nada. Soltanto quell’orrendo russare moccoloso.
È a questo punto che sono costretto a fare una cosa davvero disgustosa: allungo una mano sotto lo sguardo curioso di Jane e scaccolo il mio amico addormentato.
capitolo due sono costantemente indeciso tra ammazzarmi e ammazzare tutti quelli che mi stanno attorno. sembrano le uniche due scelte ragionevoli, per il resto si tratta solo di ammazzare il tempo. al momento sto attraversando la cucina per arrivare alla porta sul retro. mamma: fai colazione. io non faccio colazione. io non faccio mai colazione. io non faccio colazione
da quando sono stato in grado di uscire dalla porta sul retro senza fare prima colazione. mamma: dove vai? a scuola, mamma. dovresti provarci, una volta o l’altra. mamma: non pettinarti in quel modo... non ti vedo gli occhi. ma cazzo, mamma, è proprio per questo che lo faccio. mi dispiace per lei. davvero. è proprio un peccato che io debba avere avuto una madre. Non deve essere facile avermi come figlio. non c’è niente che
possa prepararti a una delusione del genere. io: ciao. non dico mai “buongiorno”. credo che sia una delle parole più stronze mai inventate. non è che hai una scelta, tipo di dire “cattivo giorno” o “orrendo giorno” o “nonmenefreganienteditegiorno”. ogni volta che te ne vai, deve essere per forza un buon giorno. be’, io non ci credo. credo proprio il contrario. mamma: buong... la porta si chiude a metà della sua frase, ma tanto non è che non sapessi
come finiva. prima mi diceva sempre «fai il bravo!» finché una mattina ero così stufo che le ho detto: «no, non credo proprio». lei ci prova, ed è questo che rende il tutto così patetico. vorrei soltanto dirle: «mi dispiace per te, davvero», ma potrebbe essere l’inizio di una conversazione e una conversazione potrebbe essere l’inizio di un litigio e poi mi sentirei così in colpa che potrei dovermene andare a vivere a portland o roba del genere. mi serve un caffè. tutte le mattine prego che lo scuolabus si schianti e che muoriamo tutti quanti in un bell’incidente. poi mia mamma potrà
fare causa alla società degli scuolabus per non avere fatto degli scuolabus con le cinture di sicurezza e intascherà più soldi grazie alla mia morte tragica di quanti ne avrei fatti io in tutta la mia tragica vita. a meno che gli avvocati della società degli scuolabus non dimostrino alla giuria che io ero un fallito garantito al 100%. a quel punto se la potrebbero cavare comprando a mia mamma una ford fiesta usata. maura non mi sta esattamente aspettando davanti a scuola, ma io so che lei sa che la cercherò lì. di solito ci becchiamo in questo modo, così ci scambiamo un sorrisetto prima di entrare in classe. è come quelle persone
che diventano amiche in prigione ma se non fossero dentro non si rivolgerebbero mai la parola. tra me e maura è così. credo. io: dammi un po’ di caffè. maura: compratelo, cazzo. poi mi passa il suo bicchierone di cappuccino extralarge e io lo tratto come se fosse un grande tesoro. se mi potessi permettere di comprarmi il caffè, giuro che lo farei. tra me e lei va così da quando mi ricordo, il che vuol dire più o meno un anno. a un certo punto dell’anno scorso le nostre sfighe si sono incontrate e lei ha pensato che stessero bene insieme. io non ne sono sicuro, ma almeno ci guadagno il caffè.
adesso stanno arrivando derek e simon, il che è un bene perché così risparmierò un po’ di tempo a pranzo. io: passami i compiti di mate. simon: certo, tieni. che amico. suona la prima campanella. come tutte le campanelle della nostra magnifica scuola per minorati non si tratta affatto di una campanella. è un lungo beep, come se stessi per lasciare un messaggio in segreteria per dire che stai avendo la giornata più di merda di tutti i tempi. e nessuno lo ascolterà mai. non ho la minima idea del perché qualcuno possa voler diventare un
insegnante. cioè, devi passare la giornata con un gruppo di ragazzi che o ti odiano a morte o ti leccano il culo per avere dei bei voti. dopo un po’ mi sa che inizi a pagarla, questa cosa di essere circondato da persone a cui non piacerai mai per un qualsiasi motivo vero. mi dispiacerebbe per loro, se non fossero una tale massa di sadici e di sfigati. con i sadici è tutta una questione di potere e di controllo. fanno gli insegnanti per poter avere una ragione ufficiale per dominare le persone. quasi tutti gli altri professori sono degli sfigati, da quelli troppo incompetenti per fare qualsiasi altra cosa a quelli che vogliono essere i migliori amici dei loro studenti perché quando erano alle superiori non hanno
mai avuto dei veri amici. e poi ci sono quelli che pensano sinceramente che noi ci ricorderemo qualcosa di quello che ci hanno detto anche dopo gli esami di fine anno. come no. ogni tanto becchi un’insegnante come la professoressa grover, che è una sfigata sadica. cioè, non deve essere facile fare la prof di francese, perché a nessuno serve più saper parlare il francese. la grover lecca il derrière ai secchioni, mentre ce l’ha con i ragazzi normali perché le facciamo sprecare tempo, così ce la fa pagare facendoci fare delle prove in classe tutti i giorni e assegnandoci dei compiti da sfigati tipo «progetta un’attrazione per eurodisney» e poi fa quella che si stupisce quando io
dico tipo: «allora, la mia attrazione per eurodisney è minnie che usa una baguette come vibratore per spassarsela un po’ con topolino». visto che non ho idea di come si dica vibratore in francese (vibratorè?) lo dico in inglese e lei fa finta di non capire cosa sto dicendo e dice che minnie e topolino che mangiano una baguette non è granché come attrazione e mi dà un brutto voto sul registro. lo so che dovrebbe dispiacermi, ma è proprio difficile immaginare qualcosa di cui possa fregarmene di meno dei miei voti in francese. l’unica cosa degna di nota che faccio per tutta la lezione - per tutta la mattina, a dire la verità - è scrivere isaac, isaac,
isaac sul mio blocco per gli appunti e poi disegnare l’uomo ragno che scrive isaac con la ragnatela, che è una cosa parecchio da sfigato ma tanto non è che lo sto facendo per fare il figo. a pranzo mi siedo con derek e simon. è come se fossimo seduti in una sala d’aspetto: ogni tanto diciamo qualcosa, ma per la maggior parte del tempo ce ne restiamo lì fermi, leggiamo una rivista e se si avvicina qualcuno gli diamo un’occhiata. ma non succede spesso. ignoriamo la maggior parte di quelli che passano, anche quelle dietro le quali teoricamente dovremmo sbavare. di base a derek e a simon non interessano le ragazze. a loro interessano solo i
computer. derek: pensi che lo X18 uscirà prima dell’estate? simon: sul suo blog trustmaster diceva che forse sì. sarebbe una figata. io: rieccoti i tuoi compiti. quando guardo i ragazzi e le ragazze agli altri tavoli, mi chiedo cosa possano avere da dirsi. sono tutti così noiosi e cercano di compensare parlando a voce più alta. preferisco restarmene seduto qui a mangiare. io ho una specie di rituale, per cui quando arrivano le due mi concedo di essere contento perché sta per finire la scuola. è come se raggiungendo quel
punto potessi prendermi il resto della giornata libera. succede durante l’ora di mate e maura è seduta accanto a me. ha capito a ottobre la faccenda del mio rituale, per cui adesso tutti i giorni alle due mi passa un bigliettino con sopra scritto qualcosa. ti p o congratulazioni o adesso ce ne possiamo andare? o se quest’ora non finisce subito mi stacco la testa a morsi. lo so che dovrei risponderle qualcosa, ma di solito le faccio soltanto un cenno del capo. credo che voglia che usciamo insieme o roba del genere, e non so cosa fare. tutti quanti qui hanno delle attività extrascolastiche.
la mia è tornare a casa. certe volte mi fermo un po’ al parco con lo skate, ma non a febbraio, non in questo sobborgo di chicago freddo come la morte che i residenti chiamano naperville. se ci andassi adesso mi congelerei le palle. non che mi servano a qualcosa, ma preferisco tenermele attaccate, tanto per non sbagliare. e poi ho cose più interessanti da fare che farmi dire dagli sfigati più grandi quando posso andarci (di solito più o meno... mai) e farmi guardare male dai punk della mia scuola perché non sono abbastanza figo da fumare e bere con loro e neanche per essere uno straight edge. per quanto li riguarda io non esisto proprio. ho smesso di sbattermi per
entrare nel loro giro alla fine delle medie. in fondo non è che me ne freghi poi tanto dello skate. mi piace avere la casa tutta per me quando ci torno dopo la scuola. non mi devo sentire in colpa per il fatto di ignorare mia mamma, se lei non è in casa. me ne vado subito al computer e guardo se isaac è online. non c’è, per cui mi preparo un panino al formaggio (sono troppo pigro per scaldarlo) e mi faccio una sega. ci metto tipo dieci minuti, ma non è che prenda proprio il tempo. isaac non c’è ancora quando torno al computer. è l’unica persona della mia “lista di amici” che è proprio un nome di merda per una lista. cosa abbiamo, tre
anni? io: ehi, isaac, vuoi essere mio amico? isaac: ma certo, amico! andiamo a pescare! isaac sa quanto io trovi stupide queste cose e lui le trova stupide quanto me. tipo il lol. se c’è una cosa più stupida delle liste di amici, è il lol. se qualcuno usasse un lol con me, strapperei il computer dalla presa e lo spaccherei sulla testa più vicina. cioè, non è che la gente rida per davvero, quando scrive lol. roba da lobotomizzati. oppure ttyl. ma cazzo, guarda che non stai mica parlando per davvero, sai? oppure <3. ma ti pare davvero che assomigli a un cuore? a me sembrano
più due palle. (rofl! cosa? ti stai davvero rotolando per terra dal ridere? ecco, allora restaci ancora un po’ mentre TI PRENDO A CALCI IN CULO.) ho dovuto dire a maura che mia mamma mi aveva fatto disinstallare messenger per farla smettere di rompere ogni volta che stavo cercando di fare qualcosa. gothblood4567: come butta? finalwill: sto lavorando. gothblood4567: su cosa? finalwill: il mio biglietto di suicidio. non riesco a trovare un buon finale. gothblood4567: lol
così ho cancellato il mio profilo e sono risorto con un altro nome. isaac è l’unico che lo conosce ed è così che deve restare. controllo la posta. soprattutto spam. vorrei proprio sapere: c’è davvero qualcuno che riceve una mail da
[email protected], la legge e si dice: «sai cosa? ho davvero bisogno di aumentare le dimensioni del mio pene del 33% e il modo migliore per farlo è mandare 69.99 dollari a questa simpatica signora ilena della VIRILITY MAXIMUS CORP tramite questo comodo collegamento internet!». se qualcuno ci casca davvero, non è del suo pisello che si dovrebbe
preoccupare. su facebook ho una richiesta d’amicizia da uno sconosciuto e la ignoro senza andare a vedere il profilo perché non mi sembra una cosa naturale. l’amicizia non dovrebbe essere una cosa così facile. è come se la gente credesse che basta che ti piacciano le stesse band per essere anime gemelle. o gli stessi libri. oddio!!! anche a te piace i ragazzi della 56a strada!!! è come se fossimo la stessa persona!!! no, per niente. è come se avessimo lo stesso prof di inglese, tutto qui. sono quasi le quattro e di solito a quest’ora isaac è già online. faccio quella stronzata delle ricompense con i compiti. del tipo se scopro quando i
maya hanno inventato lo stuzzicadenti poi posso controllare un’altra volta se isaac è online. poi se leggo altri tre paragrafi sull’importanza del vasellame per le culture indigene posso controllare il mio account di yahoo , e alla fine se finisco di rispondere a tutte e tre queste domande e isaac non è ancora online posso farmi un’altra sega. sono solo a metà della prima risposta - una qualche stronzata sul perché le piramidi maya sono troppo più fighe di quelle egiziane - quando baro e do un’occhiata alla mia lista di amici e vedo che c’è il nome di isaac. sto per pensare perché non mi ha messaggiato? quando sullo schermo compare la
finestrella, come se mi avesse letto nella mente. boundbydad: c6? grayscale: sì! boundbydad: :-) grayscale: :-) x 100 boundbydad: è tutto il giorno che penso a te grayscale: bene o male? boundbydad: solo bene grayscale: peccato :-) boundbydad: dipende da cosa consideri bene e male boundbydad: :-) :-) è così dall’inizio. ci capiamo al volo. sulle prime mi inquietava un po’ il suo alias, però mi ha detto subito che
dipendeva dal fatto che lui si chiamava isaac (cioè isacco) e allafinepapàhadecisodiucciderelacaprainv era un po’ troppo lungo. mi ha chiesto del mio vecchio alias, finalwill (cioè testamento), e io gli ho detto che mi chiamavo will ed è così che abbiamo iniziato a conoscerci. eravamo in una di quelle chat sfigate dove ogni dieci secondi cala il silenzio assoluto finché qualcuno fa «c’è qualcuno?» e gli altri fanno «sì», «eccomi», «ciao» e poi non dicono nient’altro. era un forum dedicato a un cantante che mi piaceva, ma non c’era molto da dire su di lui a parte quali canzoni ti piacevano di più o di meno. una noia mortale. però è così che ci siamo incontrati io e isaac, per cui mi
sa che dovremo scritturare quel cantante per suonare al nostro matrimonio (lo so che non fa ridere). nel giro di poco tempo abbiamo iniziato a scambiarci foto e mp3 e a parlare di come tutto quanto facesse schifo, ma naturalmente la cosa ironica era che mentre parlavamo il mondo non faceva poi così schifo, a parte il fatto che alla fine dovevamo tornare alla vita reale. è un’ingiustizia che lui viva in ohio. non è proprio lontanissimo, ma visto che nessuno dei due guida e nessuno dei due si sognerebbe di dire «senti, mamma, mi scarrozzeresti in un altro stato per vedere un ragazzo?» siamo fregati.
grayscale: sto leggendo dei maya. boundbydad: maya angelou? grayscale: ??? boundbydad: lascia stare. noi li abbiamo saltati, i maya. adesso studiamo solo storia “americana”. grayscale: ma i maya non erano in america? boundbydad: non secondo la mia scuola. **grrr** grayscale: allora oggi chi hai quasi ucciso? grayscale: e per ucciso intendo desiderato che sparisse nel caso questa conversazione fosse monitorata dagli amministratori... boundbydad: le vittime potenziali sono state 11. 12 se conti il gatto.
grayscale: ...o dai servizi segreti grayscale: maledetto gatto! boundbydad: maledetto gatto! non ho detto a nessuno di isaac perché sono soltanto affari miei. mi piace un sacco questa cosa che lui sa chi sono tutti quanti ma nessuno sa chi sia lui. se avessi dei veri amici con cui pensassi di poter parlare, la cosa potrebbe essere un problema ma, visto che al momento basterebbe una sola auto per portare tutti quelli che verrebbero al mio funerale, direi che va bene così. alla fine isaac se ne deve andare, perché teoricamente non potrebbe usare il computer al negozio di musica dove lavora. per mia fortuna non sembra
essere un negozio molto frequentato e il suo capo è tipo uno spacciatore o roba del genere e lascia sempre isaac da solo quando esce per “vedere della gente”. mi allontano dal computer e finisco i compiti in fretta. poi vado in salotto e accendo law&order, perché l’unica cosa su cui io possa davvero contare nella vita è che ogni volta che accendo la tele stanno trasmettendo un episodio di law&order. questa volta tocca a quello con il tizio che strangola una bionda dopo l’altra e, anche se sono abbastanza sicuro di averlo già visto una decina di volte, lo guardo come se non sapessi che la giornalista carina con cui il tizio sta parlando finirà con una corda delle tende attorno al collo. non guardo quella
parte perché è davvero stupida, ma quando la polizia becca il tizio e il processo va avanti, dicono roba tipo avvocato: la corda ti ha staccato questo pezzo microscopico di pelle dalla mano mentre la stavi strangolando e noi lo abbiamo analizzato al microscopio e abbiamo scoperto che sei fregato di brutto. avrebbe dovuto saperlo che in quei casi si mettono i guanti, anche se probabilmente i guanti avrebbero lasciato dei frammenti di fibre e lui sarebbe stato fregato di brutto in ogni caso. dopo c’è un altro episodio che penso di non avere mai visto finché un vip non stira un bambino con un suv e io
faccio ah, è quello dove il vip stira un bambino con il suv. però lo guardo lo stesso, perché tanto non ho niente di meglio da fare. poi mamma torna a casa e mi trova lì ed è come se anche noi fossimo una replica: mamma: com’è andata la tua giornata? io: mamma, sto guardando la tele. mamma: la cena sarà pronta tra un quarto d’ora. io: mamma, sto guardando la tele! mamma: ok, allora apparecchia durante la pubblicità. io: VA BENE. non lo capisco proprio: c’è qualcosa di più noioso e patetico di
apparecchiare la tavola quando sei soltanto in due? cioè, con le tovagliette e le posate per l’insalata e tutto quanto. ma chi sta prendendo in giro? darei qualsiasi cosa per non dover passare i prossimi venti minuti a tavola con lei, perché mia mamma non crede nel silenzio. no, lei deve riempirlo tutto di chiacchiere. vorrei dirle che è a questo che servono le voci dentro la tua testa, a non annoiarti quando si sta in silenzio. ma lei non vuole restare in compagnia dei suoi pensieri a meno di non dirli ad alta voce. mamma: se stasera mi va bene magari mettiamo via qualche dollaro per il fondo auto.
io: non devi farlo per forza. mamma: non essere sciocco. mi dà una ragione per andare alla serata di poker tra ragazze. vorrei tanto che la smettesse. dispiace più a lei che a me il fatto che io non abbia un’auto. cioè, io non sono uno di quegli stronzi che pensano che appena compi diciassette anni è tuo sacrosanto diritto di cittadino americano avere una chevrolet nuova di pacca parcheggiata nel vialetto di casa. so in che situazione siamo e so che a lei non fa piacere che io debba lavorare il fine settimana al supermercato perché altrimenti non potremmo permetterci di farci la spesa, in quel supermercato. il fatto che lei sia
sempre triste per questa cosa non mi fa sentire meglio. e naturalmente ha un’altra ragione per andare a giocare a poker, oltre ai soldi: ha bisogno di amici. mi chiede se questa mattina prima di uscire ho preso le mie pillole e io le dico che se non le avessi prese sarei in bagno ad annegarmi nella vasca. a lei non piace sentirmelo dire per cui le faccio: «dai, era solo una battuta» e mi prendo un appunto mentale: le mamme non sono il pubblico ideale per scherzare sulle medicine. decido di non comprare la felpa con la scritta sono la migliore mamma del mondo di un coglione depresso che avevo pensato di regalarle per la festa della mamma. (ok,
non esiste davvero una felpa del genere, ma se ci fosse ci sarebbero sopra dei gattini che infilano la zampina nella presa elettrica.) la verità è che pensare alla depressione mi deprime di brutto, per cui torno in salotto a guardare un altro po’ di law&order. isaac non si rimette mai al computer fino alle otto, per cui aspetto. mi chiama maura ma non ho l’energia per dirle niente a parte quello che sta succedendo in law&order e lei mi odia quando lo faccio. così lascio rispondere la segreteria. io: sono will. che cazzo vuoi? lascia un messaggio e forse ti richiamerò. BEEP
maura: ciao, sfigato. mi annoiavo così tanto che ti ho chiamato. ho pensato che se non avevi niente da fare potevo darti un figlio. oh, be’, mi sa che a ’sto punto chiamerò giuseppe e gli chiederò di farmisi dentro la mangiatoia e darò alla luce un altro figlio sacro. quando inizia a fregarmene qualcosa sono quasi le otto. e anche a quel punto non me ne frega abbastanza da richiamarla. ma tanto tra noi è normale che non ci si richiami. invece vado al computer ed è come se mi trasformassi in una bambina che ha appena visto il suo primo arcobaleno. sono tutto schizzato e nervoso e speranzoso e disperato e mi dico di non guardare
ossessivamente la lista di amici, ma è come se ce l’avessi proiettata all’interno delle palpebre. alle 20:05 compare il suo nome e io inizio a contare. arrivo soltanto a dodici prima che compaia il suo messaggio. boundbydad: hola! grayscale: bonsoir! boundbydad: felice di ritrovarti. grayscale: felice di farmi ritrovare. boundbydad: lavoro oggi = giornata! peggiore! di tutti i tempi! una tizia ha provato a rubare della roba e non era neanche brava. una volta mi stavano più simpatici i ladri. boundbydad: adesso invece li voglio soltanto vedere in galera. le ho detto di
rimettere tutto a posto e lei ha fatto la finta tonta finché le ho ficcato una mano in tasca e ho tirato fuori il cd. e lei sai cos’ha detto a quel punto? oh. grayscale: neanche scusa? boundbydad: zero. grayscale: le ragazze sono stronze. boundbydad: e i ragazzi sono angioletti? :-) andiamo avanti così per tipo un’ora. sarebbe bello potersi parlare al telefono, ma i suoi non gli lasciano tenere un cellulare e so che mia mamma a volte mi controlla le chiamate mentre sono sotto la doccia. però è carino anche così. è l’unica parte della mia giornata che mi sembra valga la pena di vivere.
ci mettiamo i nostri soliti dieci minuti a salutarci. boundbydad: devo proprio andare. grayscale: anch’io. boundbydad: però non voglio. grayscale: neanch’io. boundbydad: domani? grayscale: domani! boundbydad: buonanotte. grayscale: buonanotte. questa cosa è grave perché io non auguro mai niente a nessuno, me compreso. troppe volte da bambino mi è successo di giungere le mani o chiudere forte gli occhi e sperare in qualcosa con tutte le mie forze. pensavo addirittura che ci fossero dei punti della mia stanza
migliori di altri per sperare: sotto il letto andava bene, sopra il letto no; in fondo a un armadio era ok, bastava che tenessi in braccio la mia scatola da scarpe con le figurine dei giocatori di baseball. mai, in nessun caso, alla mia scrivania, ma sempre con il cassetto dei calzini aperto. nessuno mi aveva parlato di quelle regole, me le ero pensate da solo. potevo passare ore a organizzarmi per un desiderio particolare, e ogni volta mi trovavo di fronte un muro di assoluta indifferenza. potevo desiderare un criceto oppure che mia mamma smettesse di piangere, ma il cassetto dei calzini sarebbe sempre stato aperto e io me ne sarei stato seduto dietro il cesto dei giochi con tre pupazzi in una mano e
una macchinina nell’altra. non esprimevo mai il desiderio che migliorasse tutto quanto, solo che migliorasse una cosa alla volta. e non è mai successo. così alla fine ho smesso. e continuo a smettere ogni giorno. ma con isaac no. a volte mi fa paura. sperare che funzioni. più tardi ricevo una sua mail. mi sento come se la mia vita fosse sparsa qua e là. come se ci fossero tutti questi pezzetti di carta e qualcuno avesse acceso il ventilatore. ma quando parlo con te mi sento come se il ventilatore venisse spento per un po’. come se le cose potessero avere davvero un senso. tu mi rimetti insieme,
ed è una cosa bellissima. DIO QUANTO INNAMORATO.
SONO
capitolo tre Per una settimana non succede niente. Non è un modo di dire, non è che non succeda niente di significativo. Non succede assolutamente nulla. Stasi assoluta. Ed è una cosa abbastanza paradisiaca, se devo dire la verità. Mi alzo, faccio la doccia, vado a scuola, assisto al miracolo di Tiny Cooper che si infila nel suo banco, passo le lezioni a guardare abbacchiato il mio orologio che ho trovato dentro il Kids Meal di Burger King, accolgo con sollievo la campanella dell’ultima ora,
prendo lo scuolabus per andare a casa, faccio i compiti e poi c’è la cena, i miei genitori, la porta della mia stanza chiusa a chiave, la buona musica, Facebook, la lettura degli aggiornamenti di stato degli altri (senza scrivere niente di mio perché la regola di cui sopra sullo starsene zitti riguarda anche la comunicazione scritta) e poi vado a letto e mi sveglio e faccio la doccia e vado a scuola e così via. Non mi dispiace. Preferisco una vita tranquillamente disperata a una radicalmente bipolare. E poi giovedì pomeriggio torno a casa e Tiny mi chiama e iniziano a succedere un po’ di cose. Io gli dico ciao e Tiny attacca: «Domani devi venire all’incontro della Gay-Straight
Alliance». E io dico: «Niente di personale, Tiny, ma a me non piacciono le sette. E poi sai come la penso sulle attività extrascolastiche». «No, non lo so» risponde Tiny. «Be’, sono contrario» dico. «Sono già troppe quelle scolastiche. Senti, Tiny. Devo andare. Ho mia mamma sull’altra linea.» Attacco. Non ho mia mamma sull’altra linea, ma dovevo attaccare perché non voglio essere convinto a fare un bel niente. Ma poi Tiny richiama. E dice: «In effetti avrei bisogno che tu venissi perché dobbiamo aumentare il numero degli iscritti. Il finanziamento che riceviamo dalla scuola dipende in parte
da quante persone partecipano alle riunioni». «Cosa te ne fai dei soldi della scuola? Tu hai una casa tutta tua.» «Ci servono per mettere in scena Tiny Dancer.» «Oh. Mio. Dio. Santissimo» dico io, perché Tiny Dancer è un musical scritto da Tiny. Fondamentalmente è la storia della sua vita, solo vagamente romanzata, a parte il fatto che è cantata e giuro su quello che volete che è il musical più gay di tutta la storia umana. E non è un piazzamento facile da ottenere. Non è male, intendiamoci. È solo gayssimo. In effetti, per essere un musical, è anche piuttosto bello. Le canzoni sono orecchiabili. Ce n’è una
che mi piace un sacco. Si intitola Il difensore centrale (si farebbe gli attaccanti di fascia) e comprende i memorabili versi: Lo spogliatoio non è un film porno per me / siete pieni di brufoli grossi come bignè. «Cosa?» piagnucola Tiny. «Ho soltanto paura che possa...» (come ha detto Gary l’altro giorno?) «...non fare bene alla causa» dico. «Sono proprio queste le cose che potresti dire domani!» risponde Tiny con una punta di delusione nella voce. «Va bene, ci vengo» dico, dopodiché riattacco. Lui mi richiama, ma non rispondo. Sono su Facebook che guardo il profilo di Tiny, passo in rassegna i suoi 1532 amici, ognuno più carino e
trendy di quello prima. Sto cercando di capire quali siano effettivamente iscritti alla Gay-Straight Alliance e se esiste la possibilità che si trasformino in un Gruppo di Amici non troppo fastidioso. Per quanto ne capisco però sono solo Gary, Nick e Jane. Sto sbirciando la fotina del profilo di Jane, dove sembrerebbe abbracciare una specie di mascotte a grandezza naturale sui pattini. E proprio in quel momento mi arriva una richiesta di amicizia da lei. Un paio di secondi dopo che l’ho accettata mi manda un messaggio in chat. Jane: Ehi! Io: Ehi. Jane: Scusa per il punto esclamativo,
non vorrei esserti sembrata troppo su di morale. Io: Ah. No prob. Guardo il suo profilo. L’elenco dei musicisti e dei film preferiti è di una lunghezza oscena e rinuncio prima ancora di essere arrivato alla fine della A della musica. Nelle sue foto sembra carina, ma meno che dal vivo: il sorriso che fa nelle foto non è il suo. Jane: So che Tiny ti sta reclutando per la GSA. Io: Già. Jane: Dovresti venire. Ci servono nuovi iscritti. È una cosa un po’ patetica, in effetti. Io: Sì. Credo che verrò.
Jane: Figo. Non sapevo che fossi su Facebook. Il tuo profilo è buffo. Mi piace “ATTIVITÀ: devono prevedere l’uso di occhiali da sole”. Io: I tuoi musicisti preferiti sono più degli ex di Tiny. Jane: Sì, be’. Ci sono persone che hanno una vita e altre che hanno la musica. Io: E altre che non hanno nessuna delle due. Jane: Su col morale, Will. Stai per diventare il ragazzo etero più figo della Gay-Straight Alliance. Ho la netta sensazione che stiamo flirtando. Adesso non fraintendetemi. Flirtare mi piace come a chiunque altro,
ammesso che questo chiunque altro abbia visto il suo migliore amico fatto continuamente a brandelli dall’amore. Ma non c’è niente che rompa le regole sullo starsene zitto e sul fregarsene quanto flirtare (a parte forse quel momento incantevolmente orribile in cui passi oltre il flirtare, il momento in cui sigilli la distruzione del tuo cuore con un bacio). In effetti ci dovrebbe essere una terza regola: 1. Stai zitto. 2. Fregatene di (quasi) tutto. E 3. Non baciare mai una ragazza che ti piace. Io, dopo un po’: Quanti ragazzi etero ci sono nella GSA? Jane: Uno, te compreso. lol. Mi sento uno scemo per avere
pensato che io e Jane stessimo flirtando. È soltanto una ragazza brillante e irritabile con i capelli troppo ricci. E così ci arriviamo. Alle 3:30 del pomeriggio seguente suona la campanella dell’ultima ora e per un nanosecondo sento le endorfine sfrigolarmi per il corpo, cosa che generalmente indica che sono sopravvissuto a un altro giorno di scuola senza che succedesse niente, ma poi mi ricordo: la giornata non è ancora finita. Arranco al piano di sopra mentre una marea di gente corre giù per le scale diretta verso il fine settimana. Arrivo alla classe 204. Apro la porta. Jane mi dà le spalle. Ha il culo su un
banco e i piedi su una sedia. Porta una maglietta giallina e per come è piegata le vedo l’inizio del fondoschiena. Tiny Cooper è stravaccato sulla moquette e usa lo zainetto come cuscino. Porta dei jeans attillati che fanno assomigliare le sue gambe a due salsicce blu. Al momento noi tre siamo tutta la Gay-Straight Alliance. Tiny dice: «Grayson!». «Questa è l’Associazione Contro l’Abominio dell’Omosessualità, giusto?» Tiny scoppia a ridere. Jane continua a darmi le spalle. Sta leggendo. I miei occhi tornano alla sua schiena, perché da qualche parte devono pur andare, e Tiny dice: «Grayson, stai abbandonando
la tua asessualità?». Jane si volta mentre lancio un’occhiataccia a Tiny e borbotto: «Io non sono asessuale. Sono arelazionale». E Tiny dice a Jane: «Cioè, è una tale tragedia, vero? L’unica qualità di Grayson è di essere adorabile e lui si rifiuta di uscire con qualcuno». A Tiny piace mettermi all’angolo. Lo fa per il puro piacere di farmi incazzare. E funziona. «Piantala, Tiny.» «Cioè, a me non piace proprio» continua lui. «Niente di personale, Grayson, ma non sei il mio tipo. A. Non curi abbastanza l’igiene, e B. Non me ne frega niente di tutte le stronzate che interessano a te. Però, Jane, credo tu sia d’accordo che Grayson ha delle braccia
niente male.» Jane sembra un po’ in preda al panico e io salto su per evitarle di dover dire qualcosa. «Hai uno strano modo di abbordarmi, Tiny.» «Io non ti abborderei mai, perché non sei gay. E i ragazzi a cui piacciono le ragazze sono degli sfigati per definizione. Perché dovrebbe piacermi qualcuno a cui non posso piacere?» La domanda è retorica, ma se non stessi cercando di farlo stare zitto gli risponderei: ti piace qualcuno a cui non puoi piacere perché è più facile sopravvivere all’amore non corrisposto che all’amore non più corrisposto. Dopo un attimo Tiny dice: «Le ragazze etero dicono che è carino, ecco
tutto». E poi capisco la follia in cui sono stato coinvolto. Tiny Cooper mi ha portato a una riunione della Gay-Straight Alliance per farmi mettere con una ragazza. Il che naturalmente è un’idiozia al di là di ogni umana ragionevolezza. Almeno Tiny finalmente chiude la bocca. Io inizio a fissare l’orologio e a chiedermi se tutte le riunioni della GSA sono così, se noi tre ce ne resteremo semplicemente seduti un’ora in silenzio con Tiny Cooper che a intervalli regolari rende la stanza invivibile con i suoi goffi commenti e poi alla fine ci abbracceremo e urleremo FORZA GAY! o qualcosa del genere. Ma poi entrano Gary e Nick con dei tizi che riconosco
vagamente, una ragazza con un taglio di capelli da maschiaccio e una maglietta dei Rancid che le arriva fino alle ginocchia e un prof di inglese che si chiama Fortson. Io non l’ho mai avuto, il che forse spiega perché mi sorride. «Signor Grayson» dice il professor Fortson. «È un piacere averla qui. Mi è piaciuta molto la sua lettera al direttore del giornale di qualche settimana fa.» «Il più grosso errore della mia vita» gli dico. «E perché?» Tiny Cooper mi precede. «È una lunga storia che parla di stare zitti e fregarsene.» Mi limito ad annuire. «Oh, mio Dio, Grayson» sussurra Tiny a volume altissimo. «Ti ho detto cosa mi
ha detto Nick?» Sto pensando nick nick nick, chi diavolo è nick? E poi guardo Nick, che non è seduto accanto a Gary (indizio A) e ha la testa sepolta tra le braccia (indizio B). Tiny dice: «Ha detto che non escluderebbe di poter stare con me. Testuale. Non escludo di poter stare con te. Non è la cosa più fantastica che tu abbia mai sentito?». Dall’inflessione di Tiny non riesco a capire se questa cosa gli sembra fantasticamente ridicola o fantasticamente meravigliosa, per cui scrollo le spalle e basta. Nick sospira, la testa contro il ripiano del banco, e borbotta: «Tiny, non ora». Gary si passa una mano tra i capelli e sospira. «Non fa bene alla causa, tutto
questo poliamore.» Il professor Fortson richiama tutti all’ordine con un martelletto. Un vero martelletto. Poveretto. Immagino che all’università non pensava che quel martelletto avrebbe fatto parte della sua carriera di insegnante. «Allora, oggi abbiamo qui otto persone. Ottimo, ragazzi. Credo che il primo punto all’ordine del giorno sia il musical di Tiny Tiny Dancer. Dobbiamo decidere se chiedere all’amministrazione scolastica i fondi per questo spettacolo o se vogliamo concentrarci su cose diverse. Istruzione, consapevolezza eccetera.» Tiny si raddrizza sulla sua sedia e annuncia: «Tiny Dancer non parla altro
che di istruzione e consapevolezza.» «Sì, certo» dice sarcastico Gary. «L’idea del musical è fare in modo che tutti siano perfettamente istruiti e consapevoli su tutto ciò che riguarda Tiny Cooper.» I due ragazzi seduti vicino a Gary ridacchiano e prima ancora di pensare mi trovo a dire: «Dai, non fare lo stronzo, Gary» perché non riesco a fare a meno di difendere Tiny. Jane dice: «La questione è questa. La gente ci riderà dietro? Ci potete scommettere. Però è uno spettacolo onesto. È divertente e realistico e non dice cazzate. Fa vedere le persone gay come individui complessi, non le solite robe tipo “oh, cielo, devo dire al mio
paparino che mi piacciono i ragazzi ed è coooosì difficile”». Gary solleva gli occhi al cielo e soffia tra le labbra serrate, come se stesse fumando. «Certo. Tu sai benissimo quanto è difficile» dice a Jane «visto che sei... oh, aspetta... accidenti, ma tu non sei gay!». «È irrilevante» risponde Jane. La guardo lanciare a Gary un’occhiataccia mentre il professor Fortson inizia a parlare di come non si possano avere alleanze all’interno dell’alleanza, se si vuole che l’alleanza abbia un senso. Mi sto chiedendo quante volte possa usare la parola alleanza in una sola frase quando Tiny Cooper interrompe il professor Fortson dicendo: «Ehi,
aspettate, Jane, tu sei etero?». Lei annuisce senza sollevare lo sguardo e borbotta: «Cioè, credo di sì, ecco». «Dovresti uscire con Grayson» dice Tiny. «Tu gli piaci un casino.» Se dovessi salire su una bilancia completamente vestito, bagnato fradicio, con un manubrio da cinque chili in ogni mano e una pila di libri illustrati in equilibrio sulla testa, peserei una novantina di chili, che è più o meno il peso del tricipite sinistro di Tiny Cooper. Ma in questo momento potrei spaccargli la faccia. E giuro che lo farei, se non fossi troppo occupato a cercare di scomparire. Sono qui seduto e penso Dio, giuro
che farò il voto del silenzio e andrò a vivere in un monastero e ti adorerò fino alla fine dei miei giorni se solo per questa volta mi renderai invisibile, dai dai dai, per favore per favore, rendimi invisibile subito subito subito. È estremamente probabile che Jane stia pensando la stessa cosa, ma non ne ho idea perché non dice niente neanche lei e non la posso guardare perché sono accecato dall’imbarazzo. L’incontro va avanti per altri trenta minuti, durante i quali non parlo, non mi muovo e non reagisco ad alcuno stimolo. Di base Nick fa fare la pace a Gary e Tiny e l’alleanza decide di chiedere i soldi sia per Tiny Dancer sia per una serie di volantini con finalità istruttive.
C’è ancora qualche chiacchiera, ma non sento più la voce di Jane. E poi è finita e con la coda dell’occhio vedo tutti quanti uscire ma io resto immobile lo stesso. Nell’ultima mezz’ora ho stilato un elenco mentale di circa 412 modi in cui potrei uccidere Tiny Cooper e non me ne andrò da qui finché non avrò scelto quello giusto. Alla fine decido che lo pugnalerò mille volte con una penna a sfera. Stile carcerario. Mi alzo in piedi rigido come una bacchetta ed esco dall’aula. Tiny Cooper mi aspetta appoggiato a una fila di armadietti. «Senti, Grayson» dice, e io mi avvicino e gli afferro un lembo della polo e sono in punta di piedi e i miei
occhi sono più o meno all’altezza del suo pomo d’Adamo e dico: «Di tutte le cose che mi hai fatto, questa è la peggiore, razza di succhiacazzi!». Tiny scoppia a ridere, il che mi fa solo infuriare ancora di più, e dice: «Non puoi darmi del succhiacazzi, Grayson, perché A. non è un insulto e B. sai che non lo sono. Non ancora. Purtroppo». Gli lascio andare la maglietta. Non è possibile intimidire fisicamente Tiny. «Be’, allora ti darò del pezzo di merda. Dello stronzo. E dell’adoratore della vagina.» «Questo sì che è un insulto» dice lui. «Però senti, amico. Tu le piaci. Quando è uscita dall’aula è venuta da me e mi ha
fatto: “Dicevi sul serio o stavi solo scherzando?” e io le ho fatto: “Perché lo vuoi sapere?” e lei mi ha fatto: “Be’, è carino, tutto qui” e poi io le ho detto che non stavo scherzando e lei ha sorriso imbarazzata.» «Davvero?» «Davvero.» Ho preso un lungo respiro profondo. «Ma è terribile. Lei non mi piace in quel senso, Tiny.» Lui solleva gli occhi al cielo. «E poi sarei io il pazzo? Ma se è adorabile. Dovresti ringraziarmi!» Mi rendo conto che il mio non è un comportamento... come dire... da maschio. Mi rendo conto che i maschi dovrebbero pensare solo al sesso e a
come procurarselo e che dovrebbero farsi trascinare dal proprio pacco verso qualsiasi ragazza a cui piacciono eccetera. Ma la parte che a me piace di più non è il fare, ma il notare. Notare il modo in cui lei profuma di caffè troppo zuccherato e la differenza tra il suo sorriso e il suo sorriso fotografato e il modo in cui si morde il labbro inferiore e la pelle pallida della sua schiena. Voglio solo il piacere di notare queste cose a distanza di sicurezza... e non voglio dover ammettere che le sto notando. Non ne voglio parlare e non voglio fare niente. Ci ho pensato quando eravamo lì con Tiny svenuto, piangente e moccoloso sotto di noi. Ho pensato di passare sopra
al gigante caduto e baciarla e alla mia mano sul suo volto e al suo respiro di un tepore improbabile e ad avere una ragazza che si arrabbia con me perché non parlo mai e poi parlo ancora di meno perché la cosa che mi piaceva era un sorriso con un pachiderma addormentato tra di noi e poi mi sento di merda per un po’ finché alla fine non ci lasciamo e a quel punto riaffermo il mio voto di vivere secondo le mie regole. Potevo farlo. Oppure potevo semplicemente continuare a vivere secondo le mie regole. «Credimi» gli dico. «Non ho niente per cui ringraziarti. Smettila di interferire, va bene?»
Lui risponde con una scrollata di spalle che prendo per un gesto d’assenso. «Senti,» dice Tiny «a proposito di Nick. Il fatto è che lui e Gary sono stati insieme per un sacco di tempo e si sono lasciati soltanto ieri, però c’è decisamente qualcosa di speciale tra di noi.» «Pessima idea» dico io. «Ma si sono lasciati» dice Tiny. «Giusto, ma cosa succederebbe se tu ti lasciassi con qualcuno e il giorno dopo si mettesse a flirtare con uno dei tuoi amici?» «Ci penserò sopra» dice Tiny, ma so che non riuscirà a trattenersi dall’avere un’altra breve storia destinata al fallimento. «Ma invece» Tiny si rianima
«venerdì devi venire con noi allo Storage Room. Io e Nick andiamo a sentire una band, i... i Maybe Dead Cats. Pop punk intellettuale. Un po’ tipo i Dead Milkmen ma meno comici.» «Grazie per avermi invitato prima» dico io tirando una gomitata a Tiny. Lui mi spinge indietro per scherzo e io quasi cado dalle scale. È come essere amici con un gigante delle favole: Tiny Cooper non può fare a meno di farti male. «È solo che ho pensato che non avresti voluto venire, dopo il disastro di settimana scorsa.» «Oh, aspetta, non posso. Lo Storage Room è vietato ai minori di 21 anni.» Tiny Cooper mi precede fino alla porta, dà un colpo con un fianco alla
sbarra di metallo e quella si spalanca. Fuori. Il fine settimana. La luce cruda di Chicago. L’aria fredda mi avvolge e Tiny Cooper è in controluce davanti al sole che affonda all’orizzonte, per cui riesco a malapena a vederlo quando si volta verso di me e tira fuori il telefono. «Chi chiami?» gli chiedo, ma Tiny non risponde. Stringe il cellulare nella sua manona enorme e poi dice: «Ciao, Jane» e io spalanco gli occhi e gli faccio il gesto di tagliargli la gola e Tiny sorride e dice: «Senti, Grayson vuole venire con noi a sentire i Maybe Dead Cats venerdì. Cosa ne diresti di andare a mangiare insieme prima?». «...» «Be’, l’unico problema è che lui non
ha un documento. Tu conosci qualcuno?» «...» «Non sei ancora arrivata a casa, giusto? Allora torna qui a prenderlo, dai.» Tiny attacca e mi dice: «Sta arrivando» e poi mi lascia lì sulla porta e corre giù per i gradini e inizia a saltellare (sì, saltellare) verso il parcheggio degli studenti. «Tiny!» urlo, ma lui non si volta. Continua a saltellare. Non mi metto a saltellargli dietro o roba del genere. Sorrido. Sarà anche un mostro di malvagità, ma Tiny Cooper è uno che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e se vuole saltellarsene in giro ha tutto il diritto di farlo.
Immagino di non poter dare buca a Jane, così mi siedo sui gradini della scuola e lei arriva nel giro di un paio di minuti al volante di una vecchia Volvo arancione dipinta a mano. Avevo già visto quell’auto nel parcheggio (è impossibile non notarla) ma non l’ho mai collegata a Jane. Lei sembra più tranquilla di quanto farebbe pensare quell’auto. Scendo le scale, apro la portiera del passeggero e salgo. I miei piedi atterrano su una pila di incarti di fast food. «Scusa. Lo so che faccio schifo.» «Tranquilla» dico io. Sarebbe il momento perfetto per una battuta, ma sto pensando stai zitto stai zitto stai zitto. Dopo un po’ il silenzio diventa troppo
imbarazzante, per cui dico: «Tu la conosci questa band... i Maybe Dead Cats?». «Sì. Non sono male. Sono un po’ tipo dei Mr. T Experience dei poveri, ma c’è una loro canzone che mi piace. Dura tipo cinquantacinque secondi e si intitola Annus Miribalis e praticamente spiega la teoria della relatività di Einstein.» «Figo» dico io. Lei sorride, mette la prima e partiamo verso il centro. Tipo un minuto dopo arriviamo a uno stop e Jane accosta sul bordo della strada e mi guarda. «Io sono un po’ timida» dice. «Uh?» «Sono un po’ timida, per cui capisco. Ma non nasconderti dietro a Tiny.»
«Non mi sto nascondendo» dico. E poi lei si infila sotto la cintura di sicurezza e io mi chiedo perché lo stia facendo e poi si sporge sopra la leva del cambio e io capisco cosa sta succedendo e lei chiude gli occhi e piega la testa di lato e io mi volto e mi metto a fissare i sacchetti del fast food sul tappetino dell’auto. Lei apre gli occhi e schizza indietro. Poi io inizio a parlare per riempire il silenzio. «Io non sono... ehm... penso che tu sia fantastica e carina ma io... cioè... io non... ecco... non... be’... non voglio avere una storia in questo momento.» Dopo un secondo lei dice con un filo di voce: «Penso di avere ricevuto delle informazioni sbagliate».
«Può essere» dico io. «Mi dispiace.» «Anche a me. Cioè, tu sei...» «No no no, smettila. Così è peggio. Va bene. Va bene. Guardami.» La guardo. «Io mi posso dimenticare che è successo se - e solo se - potrai dimenticartene anche tu.» «Non è successo niente» dico io. E poi mi correggo: «Anzi, di cosa stiamo parlando?». «Di niente» dice lei, e poi la nostra sosta di trenta secondi finisce e la mia testa viene schiacciata contro il sedile. Jane guida con la stessa irruenza con cui Tiny si fidanza. Stiamo uscendo da Lake Shore vicino
al centro e parliamo dei Neutral Milk Hotel e ci chiediamo se possano esistere delle registrazioni che nessuno ha mai sentito, tipo delle demo, e ci diciamo quanto sarebbe interessante sentire com’erano le loro canzoni prima che diventassero canzoni e che magari potremmo intrufolarci nel loro studio di registrazione e copiare tutti i nastri registrati durante l’intera esistenza della band. Il riscaldamento della Volvo è un reperto d’epoca e mi secca le labbra e la faccenda del quasi-bacio di prima sembra letteralmente dimenticata e mi accorgo di essere stranamente deluso da quanto Jane sembri poco distrutta, il che mi fa sentire rifiutato, il che a sua volta mi fa pensare che forse dovrebbero
costruire in mio onore un’ala speciale del Museo della Pazzia. Troviamo parcheggio a un paio di isolati dal posto in cui stiamo andando e Jane mi porta davanti a un’insignificante porta di vetro accanto a un venditore di hot dog. Sulla porta c’è un cartello che dice GOLD COAST COPY AND PRINT. Saliamo le scale. Nell’aria aleggia l’odore delizioso della carne di cui sono fatti gli hot dog. Entriamo in un negozietto che assomiglia a un ufficio. L’arredamento è piuttosto essenziale: due sedie pieghevoli, un poster con dei gattini e la scritta NOI NON ABBIAMO MAI FRETTA, un vaso con una pianta morta, un computer e una stampante niente male.
«Ciao, Paulie» dice Jane a un tizio pieno di tatuaggi che sembrerebbe essere l’unico dipendente della Gold Coast Copy and Print. L’odore degli hot dog si è attenuato, ma solo perché l’aria lì dentro puzza di marijuana. Il tizio fa il giro del bancone e abbraccia Jane con un braccio solo, dopodiché lei dice: «Lui è il mio amico Will» e il tizio allunga una mano e io la stringo e vedo che ha le lettere H-O-P-E tatuate sulle nocche. «Paulie e mio fratello sono amici. Andavano alla Evanston insieme.» «Sì, ci andavamo insieme» dice Paulie. «Ma di sicuro non ci siamo diplomati insieme, perché io non ci sono ancora riuscito.» E scoppia a ridere.
«Sì, allora, Paulie. Will ha perso la patente» spiega Jane. Paulie mi sorride. «Che peccato.» Mi allunga un foglio di carta da computer e dice: «Ho bisogno del tuo nome, indirizzo, data di nascita, stato civile, altezza, peso e colore degli occhi. E cento verdoni.» «Io... uh...» dico, perché si dà il caso che non me ne vada in giro con cento dollari in tasca. Ma prima che possa dire qualcosa, Jane piazza cinque biglietti da venti sul bancone. Ci sediamo sulle sedie pieghevoli e ci inventiamo la mia nuova identità. Chiamatemi Ishmael J. Biafra. Abito in 1060 W. Addison Street, l’indirizzo del Wrigley Field. Ho i capelli castani, gli
occhi azzurri, sono alto un metro e settantasette, peso 72 chili, il mio numero della previdenza sociale è composto da nove cifre scelte a caso e ho compiuto ventun anni il mese scorso. Consegno il foglio a Paulie, che mi indica una striscia di nastro adesivo e mi dice di piazzarmici sopra in piedi. Si porta davanti agli occhi una macchina fotografica digitale e dice: «Sorridi!». Io non ho sorriso per la foto della mia patente vera e di certo non sorriderò per questa. «Un minuto e ci sono» dice Paulie, così mi appoggio al muro e mi sento abbastanza nervoso per questa cosa del documento falso da dimenticare di esserlo per la vicinanza di Jane. Anche
se so di essere tipo la trimilionesima persona a farsi una patente falsa, sono abbastanza sicuro che sia un reato e io non sono particolarmente propenso a commettere reati. «Non bevo nemmeno» dico ad alta voce, un po’ a me stesso e un po’ a Jane. «La mia mi serve solo per i concerti» dice lei. «Me la fai vedere?» le chiedo. Lei prende il suo zainetto, che è completamente ricoperto di nomi di band e citazioni, e tira fuori il portafogli. «La tengo nascosta qua dietro» dice aprendo la cerniera di uno scompartimento del portafogli «perché se dovessi tipo morire o roba del genere
non voglio che l’ospedale chiami i genitori di Zora Thurston Moore». È il nome che si è scelta e il documento mi sembra identico a uno vero. La sua foto è fantastica. La bocca sembra proprio sul punto di ridere, ed è esattamente così che l’ho vista a casa di Tiny. Non è come nelle foto su Facebook. «In questa fotografia sei venuta benissimo. Tu sei proprio così» le dico. Ed è vero. Il problema è questo: un sacco di cose sono vere. È vero che vorrei soffocarla di complimenti ed è vero che vorrei mantenere le distanze. È vero che voglio piacerle ed è vero che non voglio. È la stupida infinita verità che parla da entrambe le estremità della sua stupida boccaccia. Ed è questo che
continua a farmi parlare. Stupidamente. «Cioè, tu non puoi sapere come sei, giusto? Quando ti vedi in uno specchio, tu sai che ti stai guardando, per cui non puoi evitare di metterti in posa. Per cui non lo sai mai veramente. Ma in questa foto... tu sei proprio così.» Jane appoggia due dita sulla foto della patente che sto tenendo contro la gamba, per cui le sue dita (se non si conta la patente) sono sulla mia gamba, e io le guardo per un momento e poi la guardo negli occhi e lei dice: «Paulie sarà anche un criminale, ma in effetti è un bravo fotografo». Proprio in quel momento Paulie arriva con in mano un pezzo di plastica che potrebbe essere una patente di
guida. «Signor Biafra, il suo documento.» Me la porge. Sulle nocche di questa mano ha scritto L-E-S-S. È perfetta. Tutti gli ologrammi di una vera patente dell’Illinois, tutti i colori giusti, la stessa plastica laminata, le stesse informazioni sulla donazione degli organi. Sembro addirittura quasi decente nella foto. «Cazzo» dico. «È una meraviglia. È la Monna Lisa dei documenti.» «Grazie» dice Paulie. «Va bene, ragazzi, adesso ho da fare.» Paulie sorride e tira fuori una canna. Mi sconvolge il fatto che uno così strafatto possa essere un genio nel campo della falsificazione dei documenti. «Ci
vediamo, Jane. E di’ a Phil di chiamarmi.» «Agli ordini, capitano» dice Jane, dopodiché scendiamo le scale e io sento la mia patente falsa nella tasca davanti dei jeans, stretta alla mia coscia, ed è come se avessi in tasca il biglietto d’ingresso del mondo. Usciamo per strada, il freddo è una sorpresa permanente. Jane si mette a correre e io non so se dovrei seguirla o no, ma poi si volta verso di me e inizia a tornare indietro saltellando. Ha il vento in faccia e la sento a malapena quando urla: «Dai, Will! Saltella! In fondo adesso sei un uomo». E che io sia dannato se non le saltello dietro.
capitolo quattro sto sistemando i purganti nella corsia sette quando entra maura. sa che il mio capo si incazza se me ne sto in giro a parlare durante il lavoro, per cui mentre chiacchiera con me fa finta di cercare delle vitamine. mi sta dicendo che c’è qualcosa di tremendamente disturbante nella parola masticabile e poi all’improvviso l’orologio segna le 17:12 e lei decide che è arrivato il momento delle domande personali. maura: sei gay?
io: cazzo dici? maura: per me non sarebbe un problema. io: oh, bene, perché nel caso la cosa che mi preoccuperebbe di più sarebbe crearti un problema. maura: dicevo per dire. io: va bene. adesso stai zitta e lasciami lavorare. oppure vuoi che usi il mio sconto per i dipendenti per prenderti qualcosa per i crampi? penso che dovrebbe essere proibito mettere in questione la sessualità di un ragazzo mentre sta lavorando, e in ogni caso non ne voglio parlare con maura né qui né altrove. perché il fatto è che non siamo così amici. con maura mi piace
quando ci scambiamo scenari da giorno del giudizio, ma non è il tipo di persona per la quale vorrei che quel giorno non arrivasse. per l’annetto circa in cui ci siamo frequentati il problema è sempre stato questo. so che se le dicessi che mi piacciono i ragazzi lei probabilmente smetterebbe di voler uscire con me, che sarebbe una figata, ma so anche che diventerei immediatamente il suo amichetto gay, e non è assolutamente quello che voglio. e poi non sono così tanto gay. madonna mi fa cagare, per dire. io: i cereali per stitici dovrebbero chiamarli Merdabix. maura: parlavo seriamente.
io: e io ti sto dicendo seriamente di andartene affanculo. non dovresti darmi del gay solo perché non voglio venire a letto con te. ci sono un sacco di ragazzi etero che non vogliono venire a letto con te. maura: vaffanculo. io: ecco, appunto. mi si avvicina e fa cadere la pila di boccette che ho appena messo a posto. sto per raccoglierne una e tirargliela sulla nuca mentre se ne va, ma la verità è che se le spaccassi la testa qui dentro il mio capo mi farebbe ripulire tutto, che sarebbe una palla. l’ultima cosa di cui ho bisogno è della materia grigia sulle scarpe nuove. sapete quanto è difficile
pulire via quella merda? comunque questo lavoro mi serve per davvero e quindi non posso fare cose tipo urlare o attaccarmi la targhetta del nome a testa in giù o portare i jeans strappati o sacrificare dei cuccioli nel reparto giocattoli. non è un grosso problema, a parte quando c’è il mio capo in circolazione o quando viene qualcuno che conosco e si sente in imbarazzo perché io lavoro e lui non è costretto a farlo. penso che maura si rifarà viva nella corsia numero sette, e invece no, e so che dovrò fare il carino con lei (o almeno non fare troppo lo stronzo) per i prossimi tre giorni. mi prendo un appunto mentale: offrirle un caffè o
qualcosa del genere, ma la mia lavagna mentale è uno schifo, perché appena ci scrivo qualcosa sopra si cancella subito. la verità è che la prossima volta che parleremo maura farà la scena di quella che ci è rimasta male e la cosa mi farà soltanto innervosire ancora di più. cioè, è stata lei a chiedere. non è colpa mia se non sa reggere la risposta. il supermercato il sabato chiude alle otto, il che significa che per le nove sono fuori. eric e mary e greta stanno parlando delle feste a cui andranno, e anche roger, il nostro capo dalla testa quadrata, ci sta dicendo che lui e sua moglie si faranno “una bella seratina in casa” (occhiolino gomitata bleah
vomito). preferirei immaginare una ferita putrida e infestata dai vermi. roger è pelato e grasso e probabilmente anche sua moglie è pelata e grassa e l’ultima cosa di cui voglio sentir parlare sono loro che fanno sesso pelato e grasso. soprattutto perché lui è lì tutto occhiolini e gomitate e invece la verità è che probabilmente tornerà a casa e guarderanno un film di tom hanks e poi uno dei due si sdraierà sul letto e ascolterà l’altro che piscia in bagno e poi si scambieranno di posto e quando avranno finito tutti e due di svuotarsi la vescica spegneranno la luce e si metteranno a dormire. greta mi chiede se voglio andare con lei, ma ha tipo ventitré anni e il suo
ragazzo ha l’aria di uno che mi potrebbe sventrare se mi sentisse usare un congiuntivo in sua presenza. così me ne torno a casa e lì c’è mamma e isaac non è online e odio il fatto che mamma non faccia mai niente il sabato sera e isaac sì. cioè, non voglio che se ne stia seduto a casa ad aspettare che io torni per messaggiarci, perché una delle cose fighe di lui è che ha una vita. c’è una sua mail in cui dice che va al cinema per il compleanno di kara e io gli dico di farle gli auguri da parte mia, ma naturalmente quando riceverà il messaggio il suo compleanno sarà passato e in ogni caso non so nemmeno se ha parlato a kara di me. mamma è sul nostro divano giallo
limone e sta guardando la miniserie di orgoglio e pregiudizio per la decimilionesima volta e so che se resterò qui a vederla con lei mi trasformerò in una ragazza. la cosa strana è che a lei piacciono anche i film tipo kill bill e io non sono mai riuscito a notare una differenza nel suo umore tra quando sta vedendo orgoglio e pregiudizio e quando sta vedendo kill bill. è come se lei fosse la stessa persona a prescindere da quello che succede, che non può essere una cosa buona. finisco per vedere orgoglio e pregiudizio perché dura quindici ore, così so che quando sarà finito isaac sarà probabilmente tornato a casa. il mio
telefono continua a squillare e io continuo a non rispondere. è uno degli aspetti positivi di sapere che lui non mi può chiamare: non devo mai preoccuparmi che sia lui. il campanello suona proprio mentre il tizio sta per dire alla tizia tutte le stronzate che le deve dire e all’inizio lo ignoro come ho fatto con il cellulare. l’unico problema è che alla porta non scatta la segreteria, per cui suonano di nuovo e mamma sta per alzarsi per cui dico che ci vado io, pensando che debba essere l’equivalente in 3d di uno che ha sbagliato numero. solo che quando arrivo alla porta fuori c’è maura, e ha sentito i miei passi per cui sa che sono lì.
maura: ti devo parlare. io: non è tipo mezzanotte? maura: apri la porta. io: sennò la butti giù soffiando? maura: dai, will. apri e basta. mi fa sempre un po’ paura quando diventa così diretta con me, per cui mentre apro la porta sto già cercando di immaginare come liberarmi di lei. è come un istinto naturale. mamma: chi è? io: è solo maura. oh cazzo. maura prende quel solo sul personale. vorrei che si asciugasse la lacrima che ha sotto un occhio e si desse un contegno. si è messa abbastanza
eyeliner da scontornare un cadavere e la sua pelle è così pallida che sembra sia appena stata vampirizzata. le mancano solo i due puntini di sangue sul collo. ce ne restiamo lì sulla porta perché non so proprio dove dovremmo andare. non mi pare che maura sia mai stata dentro casa mia prima d’ora, a parte forse in cucina. di sicuro non è mai stata in camera mia, perché è lì che si trova il computer e maura è il tipo di ragazza che lasciata da sola un minuto andrebbe dritta al tuo diario o al computer. e poi se le avessi chiesto di venire in camera mia avrebbe potuto pensare che voleva dire qualcosa e di sicuro non voglio che maura pensi che voglia fare cose del tipo ehi-perché-non-ci-sediamo-sul-
mio-letto-e-già-che-ci-siamo-cosa-nedici-se-ti-infilo-dentro-il-pisello? però la cucina e il salotto sono off-limits per via di mamma e la stanza di mamma è off-limits perché è la stanza di mamma. ed è così che mi ritrovo a chiedere a maura se le va di andare in garage. maura: in garage? io: senti, non ho intenzione di chiederti di metterti a succhiare un tubo di scappamento, va bene? se volessi fare un patto suicida con te sceglierei la scossa elettrica nella vasca da bagno con il phon. come fanno i poeti. maura: va bene. la miniserie di mamma non è ancora arrivata al suo merdoso limite
janeausteniano, per cui so che io e maura potremo parlare senza essere disturbati. o almeno saremo gli unici due disturbati nel garage. sedersi in auto sembra veramente idiota, così libero un po’ di spazio dalle cose di papà che mamma non è mai riuscita a buttare via. io: cosa c’è? maura: sei uno stronzo. io: non è una grande novità. maura: stai zitto un secondo. io: solo se stai zitta anche tu. maura: smettila. io: hai iniziato tu. maura: smettila e basta. decido che va bene, starò zitto, e cosa
ottengo? quindici secondi di silenzio. tutto qui, cazzo. maura: io mi dico sempre che tu fai apposta a farmi del male, il che lo rende meno doloroso, ma oggi, sai... sono proprio stufa. sono stufa di te. per tua informazione non voglio neanche venire a letto con te. non andrei mai a letto con qualcuno che non può nemmeno essere mio amico. io: aspetta un secondo... adesso non siamo più amici? maura: non lo so cosa siamo. tu non mi dici neanche che sei gay. è una classica manovra da maura. se non ottiene la risposta che vuole, crea un angolo in cui chiuderti. come quando ha
rovistato nella mia borsa mentre ero in bagno e ha trovato le mie pillole. non le avevo prese la mattina per cui me le ero portate a scuola. dopodiché ha aspettato dieci minuti buoni prima di chiedermi se prendevo dei medicinali. a me è sembrata una domanda abbastanza a caso e non mi andava di parlarne per cui le ho detto di no. e lei a quel punto cosa fa? infila una mano dentro la mia borsa e tira fuori le boccette delle pillole e mi chiede a cosa servono. aveva avuto la sua risposta, ma non le aveva ispirato una grande fiducia. ha continuato a dirmi che non mi dovevo vergognare del mio stato mentale e io ho continuato a dirle che non mi vergognavo: era solo che non ne volevo parlare con lei. non riusciva a
capire la differenza. e così adesso sono in un altro angolo. e questa volta è per la storia dell’essere gay. io: aspetta un secondo, anche se fossi gay, non spetterebbe a me deciderlo? se dirtelo? maura: chi è isaac? io: vaffanculo. maura: credi che non veda quello che disegni sul tuo blocco? io: ma stai scherzando? sei qui per sapere di isaac? maura: dimmi chi è. non glielo voglio dire. lui è mio, non suo. se le do un pezzetto della storia, lei la vorrà tutta quanta. so che in un suo
modo contorto lo sta facendo perché pensa che sia quello che voglio: parlare di tutto, dirle tutto di me. ma non è quello che voglio. non è quello che può avere. io: maura maura maura... isaac è un personaggio. non esiste veramente. cazzo! è soltanto questa cosa su cui sto lavorando. questa... non lo so... idea. ho tutte queste storie nella mia testa. e il protagonista è questo personaggio. isaac. non so da dove mi escano queste stronzate. è come se mi fossero state sussurrate all’orecchio dal dio delle bugie.
maura ha l’aria di una che vorrebbe crederci, ma non ci crede davvero. io: come pogocane. solo che non è un cane e non è un pogo. maura: cazzo, mi ero completamente dimenticata di pogocane. io: stai scherzando? ci avrebbe fatti diventare ricchi! e lei se la beve. si appoggia a me e giuro su dio che se fosse un maschio potrei vederle il pacco in tiro dentro i pantaloni. maura: lo so che è orribile, ma sono un po’ sollevata all’idea che tu non mi nasconda una cosa grossa come quella.
immagino che non sarebbe un buon momento per far notare che non ho mai detto veramente di non essere gay. le ho solo detto di andare affanculo. non so se c’è qualcosa di più terrificante di una ragazza gothic che diventa coccolosa. maura non è solo appoggiata a me, adesso mi sta esaminando la mano come se qualcuno ci avesse stampato sopra il significato della vita. in braille. io: dovrei tornare da mia mamma. maura: dille che usciamo. io: le ho promesso di guardare quella roba insieme a lei. la chiave qui è scaricare maura senza farle capire che la sto scaricando.
perché non voglio ferirla, non quando sono appena riuscito a rifarmi dell’ultima ferita che le avrei teoricamente inferto. so che appena arriverà a casa si tufferà nel suo quaderno di poesie tutte teschi e sangue e sto facendo il possibile per non ottenere una brutta recensione. una volta maura mi ha fatto vedere una delle sue poesie. appendimi come una rosa morta preservami e i miei petali non cadranno finché non li toccherai e io mi dissolverò al che le ho scritto anch’io una poesia
io sono come una begonia morta strappata dal suo mazzo perché come una begonia morta non me ne frega un cazzo e lei ha risposto non tutti i fiori hanno bisogno di luce per crescere per cui forse qualcosa del tipo
stanotte
ispirerò
pensavo gli piacessero i maschioni ma forse mi sono sbagliata e nei suoi pantaloni
potrò tuffarmi in picchiata spero di non dovere mai leggere questa roba e di non saperne niente e di non pensarci nemmeno più. mi alzo in piedi e apro la porta del garage così maura se ne può andare. le dico che ci vedremo lunedì a scuola e lei dice magari anche prima e io le sorrido finché non è a distanza di sicurezza e posso richiudere la porta del garage. la storia malata è che sono sicuro che un giorno questa cosa mi si ritorcerà contro, che un giorno mi dirà che l’ho illusa, mentre la verità è che stavo solo cercando di tenerla a distanza. devo fare in modo che si metta con qualcun altro.
presto. non è me che vuole... vuole soltanto qualcuno che la metta al centro di tutto. e non posso di certo essere io. quando torno in salotto orgoglio e pregiudizio è quasi finito, il che vuol dire che più o meno tutti sanno come sono messi rispetto a tutti gli altri. di solito mia mamma a questo punto è un ammasso di fazzolettini di carta appallottolati, ma questa volta non ha neanche gli occhi lucidi. mi conferma la cosa quando spegne il dvd. mamma: devo smetterla con questa roba. devo iniziare a vivere. credo lo stia dicendo a se stessa o all’universo, non a me. però non posso fare a meno di pensare che iniziare a
vivere sia una cosa che può credere solo un idiota totale. come se potessi prendere la macchina e andare al super e comprarti una vita nuova. la vedi nella sua bella confezione lucida e guardi dentro la plastica trasparente e dai un’occhiata a questa nuova vita e dici: «wow, ho un’aria molto più felice... credo che sia questa la vita che devo iniziare a vivere!», poi la porti alla cassa e la paghi con la carta di credito. se iniziare a vivere fosse così facile, saremmo una specie felicissima. e invece non lo siamo. per cui, mamma, la tua vita non è là fuori che ti aspetta, non illuderti che tutto ciò che devi fare è trovarla e portartela a casa. no, la tua vita è proprio qui. e sì, fa cagare. quasi
tutte le vite fanno cagare. per cui se vuoi che le cose cambino, non devi iniziare a vivere, devi muovere il culo. naturalmente non le dico niente del genere. le mamme non devono sentire stronzate di questo tipo dai loro figli, a meno che non stiano facendo qualcosa di molto sbagliato, tipo fumare a letto o farsi di eroina o farsi di eroina mentre fumano a letto. se mia mamma fosse un atleta della mia scuola, tutti i suoi amici atleti direbbero: «amico, devi solo farti una scopata». mi dispiace, cari geni, ma la scopoterapia non esiste. la scopoterapia è una versione per adulti di babbo natale. mi sembra un po’ malato che la mia mente sia passata da mia mamma alle
scopate, per cui sono contento che si lamenti ancora un po’ di se stessa. mamma: è sempre la stessa storia, vero? mamma a casa di sabato sera ad aspettare che il suo darcy si faccia vivo. io: non esiste una vera risposta a questa domanda, giusto? mamma: no, probabilmente no. io: hai chiesto a questo darcy di uscire? mamma: no. in effetti non l’ho ancora trovato. io: be’, di certo non si farà vivo finché non lo inviti. io che do consigli sentimentali a mia mamma è un po’ come un pesce rosso che insegna a volare a una lumaca.
potrei ricordarle che non tutti gli uomini sono teste di cazzo come mio padre, ma lei - non si capisce perché - detesta che io parli male di lui. probabilmente ha soltanto paura che un giorno mi svegli e mi renda conto che metà dei miei geni sono così preordinati per la bastardaggine che vorrò essere un bastardo. be’, mamma, indovina un po’? quel giorno è arrivato molto tempo fa e vorrei poter dire che è stato a quel punto che sono entrate in gioco le pillole, ma le pillole si occupano solo degli effetti collaterali. dio benedica gli stabilizzatori di umore. e tutti gli umori saranno creati uguali. io sono il movimento dei diritti civili per gli umori, cazzo.
è abbastanza tardi perché isaac sia a casa, così dico a mamma che vado a letto e poi, per essere gentile, le dico che, se mentre vado al centro commerciale dovessi vedere un tizio carino e sexy con addosso gli stivali in groppa a un cavallo, gli passerò di sicuro il suo numero. lei mi ringrazia e dice che è un’idea migliore di quelle che avrebbero potuto avere le sue amiche del poker. chissà tra quanto tempo inizierà a chiedere anche l’opinione del postino? c’è un messaggino che mi aspetta quando spazzo via il salvaschermo e mi collego. boundbydad: c6?
boundbydad: i’m wishin’ boundbydad: and hopin’ boundbydad: and prayin’ mi sento il cervello frizzare di sdolcinatezze. l’amore è una droga. grayscale: ti prego, sii l’ultima voce assennata rimasta al mondo boundbydad: eccoti! grayscale: appena arrivato. boundbydad: se fai conto su di me per l’assennatezza, devi essere messo parecchio male. grayscale: sì, be’, maura è passata al super per un’audizione da vecchia megera, poi quando le ho detto che i provini erano stati cancellati ha deciso
che voleva farsi grayscale: una scopata. e poi mia mamma ha iniziato a dire che non ha una vita. oh, e ho dei compiti a casa da fare. ma anche no. boundbydad: è dura essere te, eh? grayscale: ci puoi scommettere. boundbydad: pensi che maura sappia la verità? grayscale: sono sicuro che pensa di saperla. boundbydad: che stronza ficcanaso. grayscale: no. non è colpa sua se io non ne voglio parlare. preferisco farlo con te. boundbydad: lo stai facendo. nel frattempo, niente grandi progetti per il sabato sera? un’altra serata con
mammina? grayscale: sei tu, mio caro, il mio progetto per il sabato sera. boundbydad: è un onore. grayscale: puoi dirlo forte. com’era la festa di compleanno? boundbydad: piccola. kara ha voluto soltanto andare al cinema con me e janine. bella serata, film schifoso. quello con il tizio che scopre che la ragazza che ha sposato è una sucube. boundbydad: sucubbe? boundbydad: succube? grayscale: succube. boundbydad: lei. all’inizio era stupidissimo. poi è diventato noiosissimo. poi incasinato e stupido. poi ci sono stati un paio di minuti in cui
era così stupido da essere divertente. poi è tornato a essere una noia. e il finale era una schifezza. boundbydad: alla grande, insomma. grayscale: come sta kara? boundbydad: si sta riprendendo. grayscale: cioè? boundbydad: parla molto dei suoi problemi al passato per convincersi che siano passati. e forse è così. grayscale: me l’hai salutata? boundbydad: sì. credo di avere detto testualmente «will dice che ti vorrebbe dentro di lui» ma l’effetto è stato lo stesso. ti saluta anche lei. grayscale: ** sospira tristemente ** avrei voluto essere lì. boundbydad: e io vorrei essere lì con
te adesso. grayscale: davvero? :-) boundbydad: signorsì, signore! grayscale: e se tu fossi qui... boundbydad: cosa farei? grayscale: :-) boundbydad: adesso ti dico cosa farei. è un gioco tra noi. la maggior parte del tempo non facciamo sul serio. cioè, può andare in diversi modi. il primo è che prendiamo in giro quelli che fanno sesso via chat inventandoci dei ridicoli dialoghi pornografici. grayscale: voglio che mi lecchi la clavicola. boundbydad: ti sto leccando la
clavicola. grayscale: ooh la mia clavicola è tutta un bollore. boundbydad: cattivella di una clavicola. grayscale: mmmmmmm boundbydad: wwwwwwwww grayscale: rrrrrrrrrrrrrrrrr boundbydad: tttttttttttttttttttt altre volte invece scegliamo l’approccio da romanzetto rosa. boundbydad: sfodera la tua fremente virilità per me, stallone. grayscale: il tuo vigore brucia dentro di me come fuoco infernale. boundbydad: la mia squadriglia del
piacere sta esplorando la tua terra di nessuno. grayscale: infarciscimi come un tacchino del giorno del ringraziamento, esploratore!!! e poi ci sono sere come questa, in cui viene fuori la verità, perché è quello di cui abbiamo più bisogno. o forse ne ha bisogno solo uno di noi, ma l’altro sa che è il momento giusto per questo. come ora, quando la cosa che voglio di più al mondo è averlo accanto a me. lui lo sa, e dice boundbydad: se fossi lì starei in piedi dietro la tua sedia e ti appoggerei le mani sulle spalle, piano, e te le massaggerei delicatamente finché non
hai finito l’ultima frase boundbydad: poi mi chinerei in avanti e ti sfiorerei le braccia e appoggerei il mio collo al tuo e ti farei girare e ti lascerei riposare lì per un po’ boundbydad: e riposare boundbydad: e quando saresti pronto, ti bacerei una volta e poi mi solleverei, mi siederei sul tuo letto e ti aspetterei lì. e così potremmo sdraiarci insieme e tu potresti stringermi e io potrei stringere te boundbydad: e proveremmo una sensazione di pace. di pace assoluta. come se dormissimo, ma svegli e insieme. grayscale: sarebbe bellissimo. boundbydad: lo so. piacerebbe tanto
anche a me. non riesco a immaginare di dirci queste cose ad alta voce. ma anche se non riesco a immaginare di sentire queste parole, posso immaginare di viverle. non le immagino come delle scene di un film, ma proprio come dei pezzi di vita. immagino come mi sentirei con lui qui. immagino la pace. sarebbe un momento felicissimo, e mi rende triste il fatto che esista solo a parole. all’inizio isaac mi ha fatto sapere che le pause lo mettono a disagio: se passava troppo tempo senza che gli rispondessi, pensava che stavo scrivendo qualcos’altro in un’altra finestra o che mi ero allontanato dal
computer o che stavo chattando con altri dodici ragazzi. e io ho dovuto ammettere che provavo le stesse paure. così adesso facciamo questa cosa che quando facciamo una pausa digitiamo così: grayscale: sono qui boundbydad: sono qui grayscale: sono qui boundbydad: sono qui finché non arriva la frase successiva. grayscale: sono qui boundbydad: sono qui grayscale: sono qui boundbydad: cosa stiamo facendo? grayscale: ??? boundbydad: credo che sia ora
boundbydad: ora che ci incontriamo grayscale: !!! grayscale: seriamente? boundbydad: serissimamente grayscale: vuoi dire che ci sarebbe la possibilità di vederti boundbydad: abbracciarti per davvero grayscale: per davvero boundbydad: sì grayscale: sì? boundbydad: sì. grayscale: sì! boundbydad: sono pazzo? grayscale: sì! :-) boundbydad: impazzisco se non lo facciamo. grayscale: dovremmo farlo.
boundbydad: dovremmo. grayscale: omioddddiowow boundbydad: succederà, vero? grayscale: ormai non possiamo tornare indietro. boundbydad: sono così eccitato... grayscale: e terrorizzato boundbydad: ...e terrorizzato grayscale: ...ma soprattutto eccitato? boundbydad: ma soprattutto eccitato. succederà. so che succederà. vertiginosamente, terrificantemente, scegliamo una data. venerdì. tra sei giorni. solo sei giorni. tra sei giorni forse la mia vita inizierà per davvero.
è una cosa da pazzi. e la cosa più da pazzi di tutte è che sono così eccitato che vorrei subito dirlo a isaac, anche se è l’unica persona che sa già che è successo. non maura, non simon, non derek, non mia mamma... nessuno al mondo a parte isaac. lui è la fonte della mia felicità e anche quello con cui la vorrei condividere. devo credere che è un segno.
capitolo cinque È uno di quei fine settimana in cui non esco di casa (letteralmente) a parte un salto al supermercato con mamma. Di solito questi fine settimana non sono un problema, però in fondo continuo a sperare che Tiny e/o Jane mi chiamino e mi diano una scusa per usare la patente che ho nascosto nella mia libreria, tra le pagine di Persuasione. Ma non mi chiama nessuno, né Tiny né Jane si fanno vedere online e l’aria è più fredda della tetta di una strega dentro un reggiseno d’acciaio, per cui me ne resto a casa e
mi riporto in pari con i compiti. Faccio gli esercizi di algebra e quando finisco mi siedo di fronte al libro per tipo tre ore e cerco di capire quello che ho appena fatto. È un fine settimana così, di quelli in cui hai così tanto tempo a disposizione che vai oltre le domande e inizi a pensare veramente. Poi domenica sera mentre sono al computer per vedere chi c’è online dalla porta della mia stanza spunta mio padre. «Will» dice. «Puoi venire a parlare un secondo in salotto?» Io mi volto e scatto in piedi. Lo stomaco mi si ribalta perché il salotto è la stanza in cui viene rivelata la non-esistenza di Babbo Natale, la stanza in cui muoiono le nonne, la stanza in cui ti sgridano per i brutti voti, la
stanza dove ti spiegano che la station wagon dei maschi entra dentro il garage delle femmine e poi esce dal garage e poi rientra ancora e così via finché l’uovo non viene fecondato eccetera. Mio padre è molto alto e molto magro e molto calvo e ha lunghe dita ossute che stanno tamburellando sul bracciolo di un divano a fiori. Mi siedo di fronte a lui su una poltrona troppo imbottita e troppo verde. Il tambureggiare continua per tipo trentaquattro anni senza che lui dica niente e poi io dico: «Ehi, papà». Lui ha un modo molto formale e intenso di parlare. Ti parla sempre come se ti stesse informando che hai un cancro all’ultimo stadio (cosa che tra l’altro deve fare spesso al lavoro, per cui la
cosa non è poi così strana). Mi guarda con questi occhi tristi e intensi da tu-haiil-cancro e dice: «Io e tua madre ci stavamo interrogando sui tuoi piani». E io dico: «Uh, be’, pensavo... uh... di andare a letto abbastanza presto. E poi andare a scuola. Venerdì vado a un concerto. L’ho già detto alla mamma». Lui annuisce. «Sì, ma dopo?» «Uh... dopo? Vuoi dire tipo andare all’università e trovare un lavoro e sposarmi e darvi dei nipoti e stare alla larga dalla droga e vivere per sempre felice e contento?» Lui sorride quasi. È una cosa difficilissima far sorridere mio padre. «C’è un aspetto di questo processo per il quale tua madre e io nutriamo un
particolare interesse in questa fase specifica della tua vita.» «L’università?» «L’università» dice. «Non è necessario che ve ne preoccupiate fino all’anno prossimo» gli faccio notare. «Non è mai troppo presto per progettare il proprio futuro» dice lui. E poi inizia a parlare di questo corso della Northwestern dove si fanno insieme il college e la scuola di medicina in tipo sei anni, così puoi diventare specializzando quando hai venticinque anni e restare vicino a casa, ma ovviamente vivere al campus, e bla bla bla perché dopo undici secondi circa capisco che lui e mamma hanno già
deciso che dovrei frequentare quel corso e mi stanno presentando l’idea e durante il prossimo anno ogni tot di tempo mi parleranno di questo corso e spingeranno e spingeranno e spingeranno. E capisco anche che se mi accetteranno probabilmente ci andrò. Ci sono modi peggiori per guadagnarsi da vivere. Avete presente la cosa che dicono tutti quanti, che i genitori hanno sempre ragione? Segui i consigli dei tuoi genitori, loro sanno cosa è meglio per te. E avete presente come nessuno ascolta mai questo consiglio, perché anche se è vero è così fastidioso e paternalista che ti fa venire soltanto voglia di sviluppare una dipendenza da metanfetamina e fare
sesso non protetto con ottantasettemila partner anonimi? Be’, io ascolto i miei genitori. Loro sanno cosa è meglio per me. Io ascolterei chiunque, per essere sinceri. Quasi tutti la sanno più lunga di me. E così mio padre non lo sa ma tutta questa spiegazione di tutto questo futuro è sprecata: mi ha già convinto. E invece sto pensando a come mi sento piccolo in questa poltrona assurdamente immensa e sto pensando alla patente falsa al calduccio tra le pagine di Jane Austen e sto pensando se sono più arrabbiato con Tiny o affascinato da lui e sto pensando a venerdì, a stare alla larga da Tiny nel casino sotto il palco mentre lui cerca di ballare come tutti gli altri e il
riscaldamento troppo alto nel locale e tutti che sudano attraverso i vestiti e la musica così veloce e irregolare che non mi importa neppure cosa stanno cantando. E dico: «Sì, mi sembra una figata, papà» e lui dice che conosce delle persone lì e io annuisco annuisco annuisco. Lunedì mattina arrivo a scuola venti minuti prima perché mamma deve essere in ospedale per le sette... immagino che qualcuno abbia un tumore extralarge o roba del genere. Così mi appoggio all’asta della bandiera sul prato di fronte alla scuola e aspetto Tiny Cooper tremando nonostante i guanti e il
cappello e la giacca e il cappuccio. Il vento taglia in due il prato e lo sento sferzare la bandiera sopra di me, ma non mi rassegno a entrare nell’edificio un nanosecondo prima della prima campanella. Arrivano gli autobus e il prato inizia a riempirsi di studenti del penultimo anno, nessuno dei quali sembra particolarmente colpito dalla mia presenza. E poi vedo Clint, un membro del mio ex Gruppo di Amici, che cammina verso di me dal parcheggio degli studenti e riesco a convincermi che non sta veramente camminando verso di me finché la condensa bianca del suo alito non mi arriva addosso come una piccola nuvola maleodorante. E non
mentirò: un po’ spero che stia per scusarsi per la meschinità di certi suoi amici. «Ciao, cazzone» dice. Lui chiama tutti cazzone. È un complimento? Un insulto? Forse è tutte e due le cose insieme, ed è proprio questo a renderlo un saluto così utile. Faccio una piccola smorfia per l’acidità del suo alito e poi dico solo: «Ciao». Altrettanto indifferente. Ogni conversazione che io abbia mai avuto con Clint o con qualsiasi altro membro del Gruppo di Amici è stata identica: tutte le parole che usiamo sono ridotte all’osso, così nessuno sa mai cosa stanno dicendo gli altri, così ogni gentilezza è crudele, ogni egoismo
generoso, ogni attenzione insensibile. Dice solo: «Questo fine settimana mi ha chiamato Tiny per il suo musical. Vuole un finanziamento del consiglio studentesco». Clint è il vicepresidente del consiglio studentesco. «Mi ha detto tutto. Un musical su un gay gigante e il suo migliore amico che ce l’ha così piccolo che deve usare le pinzette per farsi le seghe.» Dice tutto questo sorridendo. Non vuole essere cattivo. Non proprio. E io vorrei dirgli: ma che originalità! Come ti sono venute in mente le pinzette, Clint? Hai una specie di fabbrica delle barzellette in Indonesia dove ci sono dei bambini di otto anni che lavorano novanta ore la settimana
per consegnarti queste battute meravigliose? Ci sono boy-band con del materiale più originale. Ma non dico niente. «Quindi sì» prosegue finalmente Clint. «Penso che potrei aiutare Tiny alla riunione di domani. Questo spettacolo mi sembra un’idea fantastica. Ho solo una domanda: tu canterai? Perché pagherei per vederlo.» Faccio una risatina. «Il teatro non mi piace più di tanto» dico alla fine. Proprio in quel momento sento una presenza enorme dietro di me. Clint solleva un casino il mento per guardare Tiny e poi lo saluta con un cenno del capo. Dice: «Ehi, Tiny» e poi se ne va. «Stava cercando di pugnalarti alle
spalle?» chiede Tiny. Mi volto e adesso posso parlare. «Passi tutto il fine settimana senza farti vedere in chat e senza chiamare ma trovi il tempo di telefonare a lui per insistere nel tuo tentativo di distruggere la mia vita sociale con la magia della musica?» «Prima di tutto Tiny Dancer non rovinerà la tua vita sociale, perché tu non hai una vita sociale da rovinare. Secondo: non mi hai chiamato neanche tu. Terzo: ho avuto un sacco da fare! Io e Nick abbiamo passato quasi tutto il fine settimana insieme.» «Mi sembrava di averti spiegato perché non potevi uscire con Nick» dico, e Tiny sta ricominciando a parlare quando vedo Jane che viene verso di
noi, ingobbita contro il vento. Porta una felpa con il cappuccio troppo leggera. Le dico ciao e lei mi dice ciao e poi viene a mettersi accanto a me come se fossi un calorifero o roba del genere e strizza gli occhi per il freddo e io le dico: «Ehi, prendi la mia giacca». Me la tolgo e lei ci si seppellisce dentro. Sto ancora cercando di pensare a una domanda da farle quando suona la campanella ed entriamo. Non vedo Jane per tutta la giornata scolastica, il che è un po’ frustrante perché fa un freddo porco e ho paura che dopo la scuola congelerò a morte prima di raggiungere l’auto di Tiny. Dopo l’ultima ora corro giù dalle scale e apro il mio armadietto. La mia giacca è lì
dentro. Ora, è possibile infilare un biglietto attraverso le prese d’aria di un armadietto. Spingendo un po’ ci si può far passare anche una matita. Una volta Tiny Cooper ha infilato un coniglietto di peluche dentro il mio armadietto. Ma trovo decisamente difficile immaginare come Jane (che in fondo non è la persona più forte del mondo) sia riuscita a farci passare un intero giaccone. Ma non sono qui per fare domande, per cui mi infilo la giacca ed esco nel parcheggio, dove Tiny Cooper si sta scambiando una delle sue strette-dimano-seguite-da-abbraccio-con-unbraccio-solo con nientepopodimeno che Clint. Apro la portiera del passeggero e
salgo sull’Acura di Tiny. Tiny arriva poco dopo e anche se sono arrabbiato con lui non posso fare a meno di ammirare l’affascinante e complessa geometria dello spettacolo di Tiny Cooper che si incastra dentro un’utilitaria. «Ho una proposta da farti» gli dico mentre si esibisce in un altro miracolo di ingegneria: allacciarsi la cintura di sicurezza. «Sei molto gentile, ma non ho intenzione di venire a letto con te» risponde Tiny. «Molto divertente. La mia proposta è che se tu rinunci a questa cosa di Tiny Dancer io... be’, cosa vuoi che faccia? Sono disposto a fare qualsiasi cosa.»
«Voglio che tu esca con Jane. O almeno che la chiami. Dopo che mi sono dato tanto da fare per farvi restare soli, sembra che lei abbia avuto l’impressione che tu non voglia uscire con lei.» «Infatti non voglio» dico io. Il che è totalmente vero e totalmente falso. La solita stupida complessità del reale. «In che anno pensi di essere, nel 1832? Quando ti piace qualcuno e tu piaci a lui o a lei le piazzi le labbra contro le labbra e poi apri un po’ la bocca e poi ci metti una puntina di lingua giusto per rendere le cose un po’ più movimentate. E che cavolo, Grayson! Continuano tutti a blaterare di come i giovani americani siano una
massa di debosciati sessuomani che si fanno di tutto e tu non riesci neanche a baciare una ragazza a cui piaci un casino?» «Ma a me non piace, Tiny. Non in quel senso.» «È adorabile.» «E tu come lo sai?» «Sono gay, mica cieco. Ha dei capelli da paura e un naso fantastico. E poi ha le tette. A voi non piacciono le tette? Le sue mi sembrano tette abbastanza tettose. Cos’altro vuoi?» «Non mi va di parlarne.» Lui accende il motore e poi inizia a picchiare ritmicamente il testone contro il clacson. Ahnnnk. Ahhhhhnk. Ahhnnk. «Mi stai mettendo in imbarazzo» urlo
per sovrastare il clacson. «Non smetto finché non mi viene una commozione cerebrale o mi dici che la chiamerai.» Mi ficco le dita nelle orecchie, ma Tiny continua a prendere a testate il clacson. Ci guardano tutti. Alla fine dico: «Va bene. Va bene! VA BENE!» e il clacson si zittisce. «Chiamerò Jane. Sarò gentile. Ma non ho intenzione di uscire con lei.» «È una tua scelta. Una tua stupida scelta.» «Allora» dico speranzoso «niente messinscena di Tiny Dancer?» Tiny parte. «Mi dispiace, Grayson, ma non posso farlo. Tiny Dancer è una cosa più grande di me e te o di chiunque
altro di noi.» «Tiny, la tua idea di compromesso è decisamente contorta.» Scoppia a ridere. «Un compromesso è quando tu fai quello che dico io e io faccio quello che voglio. Il che mi ricorda una cosa: ho bisogno di te nello spettacolo.» Soffoco una risata, perché questa roba non avrà più niente di divertente se verrà messa in scena nel nostro stramaledetto auditorium. «Assolutamente no. No. NO. E tra l’altro devi anche eliminare il mio personaggio.» Tiny sospira. «Non lo capisci proprio, vero? Gil Wrayson non sei tu, è un personaggio inventato. Non posso
cambiare la mia opera d’arte perché tu non ti ci senti a tuo agio.» Provo un approccio diverso. «Ti umilierai su quel palco, Tiny.» «Non succederà, Grayson. Ho il sostegno economico del consiglio studentesco. Per cui stai zitto e fattene una ragione.» Sto zitto e me ne faccio una ragione, ma non chiamo Jane per questa sera. Non sono lo schiavetto di Tiny. Il pomeriggio seguente prendo l’autobus per tornare a casa, perché Tiny è impegnato con la riunione del consiglio studentesco. Mi chiama appena finisce. «Grandi notizie, Grayson!» urla.
«Le grandi notizie per qualcuno sono sempre pessime notizie per qualcun altro» rispondo. E infatti: il consiglio studentesco ha approvato un finanziamento di mille dollari per la messa in scena del musical Tiny Dancer. Quella sera aspetto che i miei tornino a casa a cena e intanto cerco di lavorare alla mia tesina su Emily Dickinson, ma soprattutto scarico qualsiasi cosa i Maybe Dead Cats abbiano mai registrato. Mi piacciono un casino. E continuando ad ascoltarli continuo ad avere voglia di dire a qualcuno quanto sono fighi e così chiamo Tiny, ma lui non risponde, e così faccio esattamente
quello che vuole lui... come sempre. Chiamo Jane. «Ciao, Will» dice lei. «Mi piacciono un casino i Maybe Dead Cats» dico io. «Sì, non sono male. Un po’ pseudointellettuali, ma lo siamo un po’ tutti, no?» «Credo che il nome della band sia una citazione di quel tizio, quel fisico» dico. In effetti lo so per certo. Li ho appena cercati su Wikipedia. «Sì» dice Jane. «Schrödinger. Solo che hanno scelto un nome completamente sbagliato perché Schrödinger è famoso per avere scritto di questo paradosso della fisica quantistica per cui, in determinate circostanze, un gatto che non
puoi vedere può essere s i a v i v o sia morto. Non forse morto.» «Oh» dico io, perché non posso neanche fare finta di averlo saputo. Mi sento un imbecille totale, per cui cambio argomento. «Ho saputo che Tiny è riuscito a farsi approvare il musical.» «Sì. A proposito, che problema hai con Tiny Dancer?» «Hai mai letto il copione?» «Sì. È fantastico.» «Be’, il coprotagonista, Gil Wrayson, sono chiaramente io. Ed è imbarazzante.» «Non pensi che sia una figata essere tipo il coprotagonista della vita di Tiny?» «Non voglio essere il coprotagonista
della vita di nessuno» dico io. Lei non risponde. «E tu come stai?» chiedo dopo un secondo. «Me la cavo.» «Tutto qui?» «Hai trovato il biglietto nella tasca della tua giacca?» «Il cos...? No. C’era un biglietto?» «Sì.» «Oh. Aspetta.» Appoggio il telefono sulla scrivania e perquisisco le tasche. Il fatto è che se ho della roba da buttare, tipo la carta di uno Snickers, e non vedo in giro un cestino, finisce tutto in tasca. E di solito non esce più. Per cui ci metto qualche minuto prima di trovare un fogliettino ripiegato. Sulla parte esterna c’è scritto:
Per: Will Grayson Da: La Houdini degli armadietti. Raccolgo il telefono e dico: «Ehi, l’ho trovato». Mi sento lo stomaco un po’ sottosopra, in un modo che è sia carino che anche no. «Be’, lo hai letto?» «No» dico io, e mi chiedo se non è meglio evitare di farlo. Non avrei dovuto nemmeno chiamarla. «Aspetta.» Apro il bigliettino. Signor Grayson, dovresti sempre assicurarti che nessuno ti guardi mentre apri il tuo armadietto. Non si sa mai (18) quando qualcuno (26) memorizzerà (4) la tua combinazione. Grazie per la giacca. Mi
sa che la cavalleria non è morta. Tua, Jane ps: mi piace il fatto che tratti le tue tasche come io tratto la mia auto. Quando arrivo alla fine del biglietto lo rileggo di nuovo. Rende ancora più vere tutte e due le verità. La voglio. Non la voglio. Forse alla fine sono un robot. Non ho idea di cosa dire, così dico la cosa peggiore possibile. «Molto carino.» È per questo che non dovrei MAI infrangere la Regola 2. Nel silenzio che segue ho il tempo di contemplare la parola carino, quanto sia altezzosa, come sia l’equivalente di
chiamare una ragazza “piccola”, come trasformi una persona in un marmocchio, come questa parola sia un’insegna al neon che sfregia il buio con le parole: «Sentiti Una Schifezza». E poi alla fine lei dice: «Non è il mio aggettivo preferito». «Scusa. Voglio dire, è...» «Lo so cosa vuoi dire, Will» dice lei. «Scusami tu. Io... uh... non lo so. Sono appena uscita da una storia e credo che forse sto cercando di riempire quel buco e tu sei il candidato migliore per riempirlo e omioddio così sembra una proposta oscena! Oh, cacchio. Mi sa che adesso metto giù.» «Mi dispiace di avere detto che era un biglietto carino. Non era carino.
Era...» «Lascia perdere. E dimenticati del biglietto. Tu non... Non pensarci e basta, Grayson.» Dopo aver messo giù per l’imbarazzo capisco come avrebbe dovuto finire la frase “tu non...”. «Tu non... mi piaci neppure, Grayson. Perché - come posso dirlo in modo educato? - non sei granché intelligente. Cioè, hai dovuto cercare quello scienziato su Wikipedia per sapere chi fosse. È solo che mi manca il mio ragazzo e tu non mi volevi baciare per cui io volevo farlo perché tu non volevi, e non è niente di che solo che non riesco a trovare un modo per dirtelo senza ferire i tuoi sentimenti e dato che io sono molto più sensibile e gentile di
te e dei tuoi carini mi fermerò dopo le parole tu non.» Richiamo Tiny, questa volta non per parlargli dei Maybe Dead Cats, e lui risponde al primo squillo e dice: «Buonasera, Grayson». Gli chiedo se è d’accordo con me sul probabile seguito della frase di Jane e poi gli chiedo cosa è andato in cortocircuito dentro il mio cervello per farmi pensare di definire carino il suo biglietto e com’è anche solo possibile essere attratti e non attratti da qualcuno nello stesso momento e se magari io sono un robot incapace di provare sentimenti e pensi che cercare di seguire le regole sullo stare zitto e fregarmene mi abbia trasformato in una specie di
mostro orribile che nessuno amerà e sposerà mai. Dico tutto quanto e Tiny non dice niente, che è una cosa fondamentalmente senza precedenti, e poi quando alla fine chiudo la bocca Tiny dice mmm sottovoce e poi dice (e lo sto citando testualmente): «Grayson, certe volte sei proprio una ragazzina». E mi chiude il telefono in faccia. La frase non finita mi fa compagnia per tutta la notte. E poi il mio cuore da robot decide di fare qualcosa, il genere di cosa che potrebbe fare piacere a una ipotetica-ragazza-che-mi-piacerebbe. Venerdì a scuola pranzo a supervelocità, il che è abbastanza facile da fare perché io e Tiny siamo seduti a
un tavolo pieno di Teatranti e stanno discutendo di Tiny Dancer e dicono tutti quanti più parole in un minuto di quelle che io potrei usare in un giorno intero. La curva della conversazione segue uno schema preciso: le voci si fanno più forti e più veloci in un grande crescendo finché Tiny fa una battuta a volume altissimo e il tavolo esplode in una risata e poi le cose si calmano per un po’ e poi le voci ricominciano, sempre più alte, fino all’eruzione successiva di Tiny. Una volta capito lo schema diventa difficile non prestarvi attenzione, ma cerco di concentrarmi sull’ingozzamento delle mie enchiladas. Poi ingollo una Coca e mi alzo. Tiny solleva una mano per zittire il
coro. «Dove vai, Grayson?» «Devo controllare una cosa» gli rispondo. Conosco la posizione approssimativa dell’armadietto di Jane. È più o meno di fronte al murale in cui una versione dipinta male della mascotte della nostra scuola, Willie il Micio Selvatico, dice dentro un fumetto: «I Mici Selvatici rispettano TUTTI», il che è ridicolo da almeno quattordici punti di vista diversi, il quattordicesimo dei quali consiste nel fatto che i mici selvatici non esistono. Willie il Micio Selvatico in ogni caso ha più o meno l’aspetto di un puma e per quanto io non sia un grande esperto di zoologia sono ragionevolmente certo che i puma non rispettino tutti.
Sono appoggiato al murale di Willie il Micio Selvatico e così sembra che sia io a dire che i Mici Selvatici rispettano TUTTI, e devo aspettare tipo una decina di minuti mentre cerco di dare l’impressione di essere impegnato a fare qualcosa e vorrei essermi portato dietro un libro per non sembrare un maniaco pedinatore, e poi alla fine suona la campanella e il corridoio si riempie di gente. Jane arriva al suo armadietto e io mi piazzo in mezzo al corridoio e tutti quanti mi fanno largo e io faccio un passo a sinistra per mettermi nell’angolazione giusta e vedo la sua mano allungarsi verso il lucchetto e strizzo gli occhi e 25-2-11. Mi allontano
in mezzo agli altri studenti e vado alla lezione di storia. Alla settima ora ho il corso di progettazione di videogiochi. Ho scoperto che progettare videogiochi è difficilissimo e non è per niente divertente come giocarci, ma il grande vantaggio di questo corso è che ho l’accesso a Internet e il mio schermo è orientato in modo che il prof non lo vede quasi mai. Così mando una mail ai Maybe Dead Cats. Da:
[email protected] A:
[email protected] Oggetto: Salvatemi la vita Cari Maybe Dead Cats,
se questa sera doveste suonare Annus Miribalis non è che potreste dedicarla a 25-2-11 (la combinazione dell’armadietto di una certa ragazza)? Sarebbe fantastico. Scusate per lo scarso preavviso. Will Grayson La risposta arriva prima che finisca l’ora. Will, qualsiasi cosa per l’amore. MDC Così dopo la scuola Jane e Tiny e io andiamo da Frank’s Franks, un posto che fa gli hot dog a pochi isolati dal locale. Mi siedo su una panchetta fianco a
fianco con Jane. Le nostre giacche sono tutte ammassate di fronte a noi, insieme a Tiny. I capelli di Jane le ricadono in grossi boccoloni sulle spalle e porta questo top del tutto inadatto alle condizioni climatiche con delle spalline sottili e un sacco di trucco sugli occhi. Un cameriere passa a prendere le ordinazioni (ehi, è un posto di classe). Io e Jane scegliamo hot dog e Coca. Tiny ordina quattro hot dog completi, tre senza pane, una ciotola di chili e una Diet Coke. « U n a Diet Coke?» chiede il cameriere. «Vuoi quattro hot dog completi, tre senza pane, una ciotola di chili e una Diet Coke?» «Esatto» dice Tiny, e poi spiega: «Gli
zuccheri semplici non mi servono a mettere su massa muscolare». Il cameriere scuote la testa e dice: «Uh-huh». «Il tuo povero sistema digestivo» dico io. «Un giorno il tuo intestino si ribellerà. Ti uscirà dalla bocca e ti strangolerà.» «Lo sai che il Mister dice che dovrei mettere su quindici chili per l’inizio del prossimo campionato. Se voglio prendere una borsa di studio da un’università della prima divisione devo essere grosso. E per me è difficilissimo mettere su peso. Ci provo di brutto, ma è una battaglia continua.» «La tua è una vita durissima, Tiny» dice Jane. Io scoppio a ridere e ci
scambiamo uno sguardo e Tiny dice: «Oh mio Dio, fatelo e piantiamola qui!», il che porta a un silenzio impacciato che dura finché Jane non dice: «Dove sono Gary e Nick?». «Probabile che si stiano rimettendo insieme» dice Tiny. «Ieri sera ho lasciato Nick.» «Era la cosa giusta da fare. Era un rapporto destinato a finire male.» «Lo so, lo so. Adesso penso proprio che resterò single per un po’.» Mi volto verso Jane e dico: «Scommetto cinque dollari che si innamora entro quattro ore». Lei ride. «Fai tre ore e ci sto.» «Andata.» Ci stringiamo la mano.
Dopo cena facciamo una passeggiata per il quartiere per ammazzare il tempo e poi ci mettiamo in coda fuori dallo Storage Room. Fa freddo, ma almeno l’edificio ci ripara dal vento. Mentre siamo in fila tiro fuori il portafogli, sposto la patente falsa davanti alle altre tessere e nascondo quella vera dietro l’assicurazione sanitaria e il biglietto da visita di mio padre. «Fammi vedere» dice Tiny. Gli passo il portafogli e lui dice: «Cazzo, Grayson, per una volta nella vita hai una foto in cui non sembri uno strillacagne». Un attimo prima di arrivare alla fine della coda Tiny mi spinge avanti, credo per avere il piacere di vedermi usare la mia patente falsa per la prima volta. Il
buttafuori porta una maglietta che non gli copre tutta la pancia. «Documento» mi dice. Io tiro fuori il portafogli dalla tasca posteriore, estraggo la patente e gliela passo. Lui la illumina con la torcia, poi mi punta la torcia in faccia, poi di nuovo sulla patente e poi dice: «Cosa credi, che non so fare i conti?». E io dico: «Uh?». E il buttafuori dice: «Hai vent’anni». E io dico: «No, ne ho ventuno». E lui mi ridà la patente falsa e dice: «Be’, la tua patente di merda dice che ne hai venti». Io la guardo e faccio il conto. La patente dice che compirò ventun anni il prossimo gennaio. «Uh» dico. «Mmm, sì. Scusa.»
Quello stupido tossico rincoglionito ha messo l’anno sbagliato sulla mia patente. Mi allontano dall’ingresso del locale e Tiny mi si avvicina ridendo come un pazzo. Anche Jane sta ridacchiando. Tiny mi tira una botta da paura sulla schiena e dice: «Solo Grayson poteva farsi fare una patente falsa che dice che ha vent’anni: non serve a niente!». E io dico a Jane: «Il tuo amico ha scritto l’anno sbagliato» e lei dice: «Mi dispiace, Will», ma non può dispiacerle così tanto, sennò la smetterebbe di ridere. «Possiamo cercare di farti entrare» propone Jane, ma io scuoto la testa. «Entrate voi» dico. «Chiamatemi
quando è finito. Me ne starò al Frank’s Franks o roba del genere. Magari chiamatemi se suonano Annus Miribalis.» E sapete cosa fanno i miei amici? Quello che ho detto. Tornano in coda e io li guardo entrare nel locale e nessuno dei due prova a dire no, no, non vogliamo vedere questo concerto senza di te. Non fraintendetemi. È una band strafiga. Ma essere scavalcato da una band fa schifo. In fila non sentivo freddo, ma adesso si gela. C’è un tempo di merda, un’aria che quando respiri dal naso ti sembra che ti si geli il cervello. E io sono qui fuori da solo con la mia inutilissima patente falsa da cento
dollari. Torno da Frank’s Franks, ordino un hot dog e lo mangio lentamente. Ma so che non potrò continuare a mangiare questo hot dog per le due o tre ore che loro due se ne staranno là dentro. Il mio cellulare è sul tavolo e io lo guardo, sperando stupidamente che Jane o Tiny mi chiamino. E, seduto lì, mi sento sempre più incazzato. Che modo del cavolo di mollare un amico! Guardo fisso davanti a me, senza neanche un libro a tenermi compagnia. Non è solo per Tiny e Jane. Sono incazzato anche con me stesso, per avere detto loro di entrare al concerto, per non avere controllato la data sulla stupida patente, per essere seduto qui ad aspettare che
suoni il telefono anche se potrei tornarmene a casa. E pensandoci sopra capisco qual è il problema di lasciarsi spingere dagli altri. A volte ti spingono in un posto come questo. Sono stanco di lasciarmi spingere dagli altri. Una cosa è farlo fare ai miei genitori. Ma Tiny Cooper che mi spinge da Jane e poi mi spinge verso una patente falsa e poi ride per il casino che ne è venuto fuori e poi mi lascia qui da solo con un cavolo di hot dog di merda quando non mi fanno impazzire nemmeno quelli buoni, di hot dog. Che stronzata. Lo vedo dentro la mia mente, vedo il suo faccione che ride. Non serve a
niente. Non serve a niente. Non è vero! Posso comprare le sigarette, anche se non fumo. Posso registrarmi per votare illegalmente. Posso... ehi! Questa sì che è un’idea. Di fronte allo Storage Room c’è un posto. Un posto di quelli con l’insegna al neon e niente vetrine. Ora, a me non è che piaccia particolarmente il porno (o i “libri per adulti” che promette il cartello fuori dal negozio), ma non ho nessuna intenzione di passare tutta la serata da Frank’s Franks a non usare la mia patente falsa. No. Vado al sexy shop. Tiny Cooper non ha le palle per entrare in un posto del genere. Zero. Sto pensando alla storia che avrò da raccontare quando Tiny e Jane usciranno
dal concerto. Metto un pezzo da cinque sul tavolo - una mancia del cinquanta per cento - e cammino per quattro isolati. Mentre mi avvicino alla porta inizio a farmi prendere dall’ansia... Però mi dico che stare fuori al freddo nel centro di Chicago è molto più pericoloso di quanto possa essere un qualsiasi negozio. Apro la porta ed entro in una sala illuminata da luci al neon. Alla mia sinistra un tizio con più piercing di un puntaspilli mi guarda da dietro il bancone. «Dai un’occhiata o vuoi un gettone?» mi chiede. Non ho la minima idea di cosa farmene di un gettone, per cui dico: «Do un’occhiata?». «Ok. Avanti» mi dice.
«Cosa?» «Entra.» «Non mi controlli i documenti?» Il tizio scoppia a ridere. «Cos’hai, sedici anni?» Ha beccato esattamente la mia età, ma gli dico: «No. Ne ho venti». «Eh, appunto, è come immaginavo. Entra.» E io sto pensando Oh mio Dio! Ma quanto cazzo è difficile usare un documento falso in questa città? È ridicolo! Non posso tollerarlo! «No» dico convinto. «Controllami i documenti.» «Va bene, amico. Se è questo che ti fa ballare le maracas...» E poi mi chiede con un tono molto teatrale: «Posso
vedere un documento, per favore?». «Certamente» rispondo passandogli la patente. Lui la guarda, me la restituisce e dice: «Grazie, Ishmael». «Prego» dico io esasperato. E poi entro per la prima volta in un sexy shop. È un po’ noioso. Sembra un negozio normale: scaffali di dvd e vecchie videocassette e una rastrelliera di riviste, il tutto sotto la luce bianca dei neon. Cioè, qualche differenza da un videonoleggio normale c’è. Del tipo: A. in un videonoleggio normale pochissimi dvd hanno sopra scritto figa o ingoio. E poi B. sono abbastanza sicuro che i videonoleggi normali non vendano fruste, mentre qui ce ne sono parecchie. E infine C. ci sono pochissimi prodotti
in vendita in un normale videonoleggio che ti fanno pensare Non ho la minima idea di cosa dovrebbe fare questo coso e di dove dovrebbe farlo. A parte il tipo con i piercing, il negozio è vuoto e anche io me ne voglio andare perché sto vivendo la parte più insopportabile e sgradevole di una giornata decisamente insopportabile e sgradevole. Ma tutto questo non avrebbe senso se non prendessi un souvenir per dimostrare che sono stato qui. Il mio obiettivo è trovare qualcosa che faccia pensare a Tiny e a Jane che ho passato una serata così divertente che loro possono a malapena immaginarsela, ed è così che alla fine scelgo una rivista in spagnolo intitolata Mano a mano.
capitolo sei in questo momento vorrei fare un salto in avanti nel tempo. o, se non è possibile, mi basterebbe fare un salto indietro. vorrei saltare avanti perché tra venti ore sarò con isaac a chicago e vorrei saltare tutto quello che c’è in mezzo per vederlo prima. non mi interessa se tra dieci ore vincerò la lotteria o se tra dodici ore avrò la possibilità di finire prima le superiori. non mi importa se tra quattordici ore mi farò una sega e avrò l’orgasmo più devastante nella storia non-ufficiale della masturbazione.
salterei tutto quanto per stare con isaac invece che dovermi accontentare di pensare a lui. per quanto riguarda il salto indietro nel tempo, è molto semplice: voglio tornare indietro e uccidere il tizio che ha inventato la matematica. perché? perché al momento sto pranzando e derek sta dicendo: derek: non sei fuori di testa per la gara di matematletica di domani? con quelle tre parole - gara di matematletica - è come se il mio corpo venisse risvegliato all’improvviso da un’anestesia colossale. io: oh, cazzo!
ci sono quattro atleti della matematica nella nostra scuola. io sono il numero quattro. derek e simon sono il numero uno e due, e per partecipare alle gare hanno bisogno di almeno quattro membri. (il numero tre è uno del penultimo anno di cui faccio sempre di tutto per dimenticare il nome. la sua matita ha più personalità di lui.) simon: non te lo sei scordato, vero? hanno messo giù tutti e due i loro slurpburger (è così che si chiamano sul menu della mensa: slurpburger) e mi stanno fissando con sguardi tanto vacui che giuro di vedere gli schermi dei computer riflessi nei loro occhiali.
io: non lo so, non mi sento molto matematletico, magari potreste cercarvi un sostituto. derek: non è divertente. io: non voleva essere divertente. simon: te l’ho già detto: non devi fare niente. alle gare di matematletica si partecipa come squadra, ma si viene valutati singolarmente. io: lo sapete che sono un grande tifoso della squadra di matematletica, ma... ecco... per domani avrei degli altri programmi. derek: non puoi farlo. simon: avevi detto che saresti venuto. derek: ti assicuro che ti divertirai. simon: non c’è nessun altro che lo farebbe.
derek: ci divertiremo! capisco che derek è sconvolto perché dà l’impressione di essere sul punto di avere una reazione vagamente emotiva agli stimoli informativi che gli sono stati presentati. forse è troppo, perché prende il vassoio con il suo slurpburger, borbotta qualcosa sulla biblioteca e se ne va. nella mia mente non ci sono dubbi: li bidonerò. l’unica domanda è: posso farlo senza sentirmi una merda? credo sia un segno di disperazione, ma decido di dire a simon qualcosa di vagamente simile alla verità. io: senti, sai che di solito non vedrei l’ora di partecipare a una gara di
matematletica. ma questa è un’emergenza. ho una specie... cioè, ecco... un appuntamento, e devo assolutamente vedere questa persona che farà un sacco di strada per vedermi e se ci fosse un modo qualsiasi per farlo e venire con voi alla gara di matematletica lo farei, ma non posso. è come... un treno che viaggia a novanta miglia all’ora e deve arrivare dalla gara di matematletica al centro di chicago in tipo due minuti per un appuntamento: non arriverà mai in tempo. per cui io devo saltare sull’espresso, perché è un’occasione che mi capiterà una volta sola e se prendo il treno sbagliato sarò più infelice di quanto potrebbe dimostrare qualsiasi equazione.
è parecchio strano raccontare questa cosa a qualcuno. soprattutto a simon. simon: non mi interessa. hai detto che ci saresti stato e ci devi essere. questo è uno di quei casi in cui quattro meno uno è uguale a zero. io: ma simon... simon: smettila di frignare e trova qualcun altro da mettere sull’auto del signor nadler con noi. il massimo sarebbe avere almeno per una volta qualcuno che sappia fare per lo meno le addizioni, ma giuro che non farò lo schizzinoso, razza di scoreggia. è affascinante come di solito io non mi renda conto di non avere molti amici. cioè, una volta usciti dalla top five ci
sono molti più dipendenti della scuola che membri del corpo studentesco. e anche se il bidello jim non mi crea problemi quando prendo qualche rotolo di carta igienica per i “progetti di arte” ho la sensazione che non sarebbe disposto a giocarsi il venerdì sera per un viaggio con una banda di secchioni. so di avere una sola possibilità, e non è una cosa facile. maura oggi è sempre stata di buonumore... be’, una versione alla maura del buonumore, il che significa che le previsioni annunciano pioggerella anziché uragani. non ha più parlato della faccenda dell’essere gay e io tantomeno. aspetto fino all’ultima ora: sotto pressione è più probabile che dica di sì.
anche se siamo seduti vicini, prendo il telefono da sotto il banco e le mando un sms. io: cosa fai domani sera? maura: niente. facciamo qualcosa? io: non posso. devo andare a chicago con mia mamma. maura: bella roba. io: ho bisogno che mi sostituisci alla gara di matematletica o s&d sono fregati. maura: scherzi, vero? io: no, sono fregati sul serio. maura: e perché dovrei? io: così ti devo un piacere + 20$. maura: fai 3 piaceri + 50$. io: affare fatto.
maura: guarda che salvo questi messaggi. la verità? probabilmente ho appena salvato maura da un pomeriggio di shopping con sua madre o di compiti a casa o dall’intingersi una penna nelle vene per procurarsi del materiale per le sue poesie. alla fine dell’ora le dico che sicuramente troverà qualche altra riserva di qualche cittadina che non abbiamo mai sentito nominare e sgattaioleranno fuori a fumare e a parlare di quanto tutti gli altri sono degli sfigati mentre derek e simon e quello scemo del penultimo anno si faranno il culo sui teoremi e i rombazoidi. davvero, le sto facendo un grande
favore. maura: non tirare troppo la corda. io: ti giuro che sarà una figata. maura: voglio 20$ in anticipo. sono contento di non aver dovuto mentire e dire che dovevo andare a trovare la mia nonna malata o roba del genere. quel tipo di bugie sono pericolose perché sai che appena dirai che tua nonna è ammalata suonerà il telefono e tua mamma entrerà nella tua stanza con delle pessime notizie sul pancreas della nonna e anche se saprai che le bugie a fin di bene non causano il cancro ti sentirai comunque in colpa per il resto della tua vita. maura mi fa qualche domanda sul mio viaggio a
chicago con mia mamma, e io faccio in modo che capisca che è un modo per riallacciare i nostri rapporti e dato che maura ha due genitori felici e io ne ho uno solo e pure sbarellato vinco il bonus empatia. sto pensando così tanto a isaac che ho una paura pazzesca che mi scappi di parlarne ad alta voce, ma per fortuna l’interesse di maura mi tiene in guardia. quando è ora che ognuno vada per la sua strada, lei prova un’altra volta a tirarmi fuori la verità. maura: c’è qualcosa che vuoi dirmi? io: sì. ti voglio dire che il mio terzo capezzolo sta schizzando latte e le mie chiappe minacciano di saldarsi insieme. cosa pensi che dovrei fare?
maura: ho la sensazione che tu non mi stia dicendo qualcosa. ecco la cosa di maura: riguarda sempre tutto lei. sempre. ora, normalmente la cosa non mi crea problemi, perché se riguarda tutto lei allora niente deve riguardare me. ma a volte questo suo restare appiccicata alla luce dei riflettori mi trascina dentro, e questa è una cosa che odio. adesso ha messo il broncio e devo ammettere che è un broncio autentico. non è come se cercasse di manipolarmi facendo finta di essere arrabbiata. maura non fa stronzate del genere, ed è per questo che la sopporto. quello che ti fa vedere è sempre quello che ha dentro,
ed è una cosa rara in un’amica. io: quando avrò qualcosa da dirti te lo dirò, va bene? adesso vai a casa e fai gli esercizi di matematica. tieni... ho preparato delle schede. ficco una mano nella mia borsa e tiro fuori queste schede che ho fatto alla settima ora, sapendo (o almeno sperando) che maura avrebbe detto di sì. non sono delle schede vere e proprie, più dei foglietti su cui ho disegnato dei puntini per farle capire dove tagliare. ogni scheda contiene un’equazione. 2+2=4 50 x 40 = 2000 834620 x 375002 = chi cazzo se ne
frega? x+y=z uccello + patata = un volatile sazio rosso + blu = viola io - matematletica = io + gratitudine x te maura le guarda per un secondo, poi piega il foglio lungo le linee tratteggiate e lo trasforma in una quadratino, simile a una mappa. non sorride né niente, ma per un secondo sembra un po’ meno incazzata. io: non far andare troppo su di giri derek e simon, d’accordo? maura: credo che saprò conservare la mia innocenza a una gara di matematletica.
io: lo dici adesso, ma vedrai tra nove mesi. se sarà una femmina la dovrai chiamare logorrea. se è un maschio invece coseno. mi viene in mente che per come vanno le cose della vita è probabile che maura trovi davvero un bel figo che fa la riserva di una squadra di matematletica e che metterà il suo più nel suo meno, mentre io andrò in bomba con isaac e tornerò a casa dalla mia vecchia amica mano. decido di non dirlo a maura: magari porta sfiga. maura mi saluta prima di andarsene e sembra che abbia qualcos’altro da dire, ma poi decide di non dirlo. un altro
motivo per esserle grato. la ringrazio ancora. e ancora. e ancora. quando finisco di ringraziarla mi dirigo verso casa e quando isaac torna a casa da scuola (oggi niente lavoro per lui) ci scambiamo delle mail. rivediamo insieme il nostro piano un migliaio di volte. lui dice che un amico gli ha suggerito di vederci in un posto che si chiama frenchy’s e, visto che in effetti non conosco un granché chicago a parte i posti in cui si va in gita scolastica, gli dico che per me va bene e stampo le indicazioni che mi ha mandato. poi vado su facebook e guardo il suo profilo per la centomiliardesima volta. non lo aggiorna molto spesso, ma per me
è più che sufficiente come promemoria del fatto che lui è reale. cioè, ci siamo scambiati delle foto e abbiamo parlato abbastanza perché sappia che è reale... non è come se fosse un quarantaseienne che mi ha già preparato un posticino sul retro del suo furgone. non sono così stupido. ci vediamo in un posto pubblico e ho il mio cellulare. se anche isaac avesse un attacco psicotico, sarei pronto. prima di andare a dormire guardo tutte le foto che ho di lui, come se non le avessi già memorizzate. sono sicuro che lo riconoscerò nel momento stesso in cui lo vedrò e sono sicuro che sarà uno dei momenti più belli della mia vita. venerdì dopo la scuola è una tortura.
vorrei commettere un omicidio in un migliaio di modi diversi, ed è il mio armadio che vorrei uccidere. non ho la minima idea di come cazzo vestirmi... e io non sono per niente uno di quei tizi che pensano sempre a cosa mettersi, per cui non riesco a trovare un modo per venirne fuori. ognuno dei miei cazzo di vestiti sembra avere scelto questo momento per rivelarmi tutti i suoi difetti. mi metto una maglietta che ho sempre pensato che mi stesse bene e in effetti fa sembrare quasi che abbia dei muscoli sul petto. ma poi mi rendo conto che è così piccola che se sollevo le braccia anche solo di due centimetri mi ritrovo con la pancia all’aria. allora mi metto un camicia nera, con cui però sembra che
me la voglia tirare, e così provo con una camicia bianca che mi sembra una figata finché non vedo questa macchia vicino al fondo. le magliette delle band sono troppo ovvie: se metto una maglietta di una delle sue band preferite sembra che voglia fare il leccaculo e se ne metto una di una band che magari non gli piace potrebbe pensare che ho dei gusti di merda. la mia felpa grigia con il cappuccio è troppo sporca e quest’altra maglietta ha lo stesso colore dei miei jeans e tutto in blu sembrerei un galeotto. dopo quindici minuti passati a provare e scartare di tutto, vorrei attaccare un appendiabiti all’armadio, infilarci dentro il collo e lasciarmi
cadere. mia mamma entrerà e penserà che sono morto in un tentativo di asfissia autoerotica senza avere neanche il tempo di tirare fuori l’uccello e io non sarò vivo per dirle che l’asfissia autoerotica è una delle più grandi stronzate dell’universo, alla pari con i gay di destra. però sarò morto. e sarà come un episodio di CSI dove gli investigatori arrivano e passano quarantatré minuti più la pubblicità a esaminare la mia vita e alla fine porteranno mia mamma in centrale e la faranno sedere e le diranno la verità. sbirro: signora, suo figlio non è stato ucciso, si stava solo preparando per il suo primo appuntamento.
sto mezzo sorridendo mentre mi immagino come gireranno la scena quando mi ricordo che sono fermo in mezzo alla stanza senza camicia e ho un treno da prendere. alla fine scelgo una maglietta che ha un disegnino di un robot fatto di nastro adesivo o roba del genere con sotto la parola robotboy a caratteri minuscoli. non so perché, però mi piace. e non so perché penso che piacerà a isaac, però è così. so che devo essere nervoso, perché sto pensando a come mi stanno i capelli, ma quando arrivo davanti allo specchio del bagno decido che i miei capelli faranno quello che vogliono fare, e dato che di solito mi piaccio di più quando c’è il vento terrò la testa fuori
dal finestrino del treno. potrei usare la roba per i capelli di mia mamma, ma non voglio profumare come una farfallina in un campo di fiori. per cui ho finito. ho detto a mamma che la gara di matematletica è a chicago: ho pensato che, se dovevo mentire, tanto valeva farle credere che eravamo arrivati alle finali dello stato. le ho detto che la scuola aveva noleggiato un autobus, e invece vado alla stazione dei treni. ho i nervi a fior di pelle. cerco di leggere il buio oltre la siepe per il corso di letteratura ma è come se le lettere fossero dei disegni sulla pagina e non significassero nulla, come la trama dei sedili del treno. potrebbe trattarsi di un
film di guerra intitolato il buio oltre la trincea e per me sarebbe la stessa cosa. così chiudo gli occhi e ascolto l’ipod, ma è come se fosse stato programmato da un cupido bastardo perché tutte le canzoni mi fanno pensare a isaac. siamo arrivati al punto che tutte le canzoni parlano di lui. e anche se una parte di me sa che probabilmente se lo merita, un’altra parte mi sta urlando rallenta, cazzo! vedere isaac sarà eccitante, ma anche imbarazzante. la cosa importante sarà non lasciarci imbarazzare. mi prendo cinque minuti per ripensare alla storia dei miei appuntamenti cinque minuti bastano e avanzano - e vengo rimandato indietro all’esperienza traumatica di palpare carissa nye da
ubriaco alla festa di sloan mitchell un paio di mesi fa. la parte in cui ci baciavamo è stata abbastanza figa, ma quando le cose si sono fatte più serie a carissa è venuta un’espressione così stupidamente intensa che io sono quasi scoppiato a ridere. abbiamo avuto un tot di problemi perché il reggiseno le bloccava l’afflusso di sangue al cervello e quando alla fine mi sono ritrovato le sue tette tra le mani (non che l’avessi chiesto) non sapevo cosa farmene a parte accarezzarle come se fossero due cuccioli. ai cuccioli è piaciuto e carissa ha deciso di darmi anche lei una palpeggiata o due e mi è piaciuto perché alla fine una mano è una mano e una palpata è una palpata e il corpo reagisce
come gli pare. a lui non gliene frega niente delle conversazioni che avrai dopo. non solo con carissa, che voleva diventare la mia ragazza e che ho cercato di mollare senza ferirla ma che alla fine ci è stata male lo stesso. no, c’è stata anche maura, perché quando lo ha saputo (non da me) si è incazzata (con me). ha detto che pensava che carissa mi stesse usando e si è comportata come se pensasse che io stessi usando carissa, quando alla fine era solo tutta una cosa senza senso e per quante volte l’abbia detto a maura lei si è rifiutata di darmi tregua. per settimane ha continuato a urlarmi: «be’, perché non chiami carissa, allora?» ogni volta che discutevamo di qualcosa. anche solo per
questo, quei palpeggiamenti li ho pagati troppo cari. isaac naturalmente è tutta un’altra storia. non solo per quanto riguarda il palpeggiamento (anche se c’è anche quello). di sicuro non sto andando in città solo per farmelo. non che sia l’ultima cosa che ho in mente, però non è nemmeno la prima. pensavo che sarei stato in anticipo, ma naturalmente quando arrivo vicino al posto dove dobbiamo vederci sono più in ritardo delle mestruazioni di una ragazza incinta. cammino lungo michigan avenue insieme ai turisti e alle turiste che corrono in albergo per il coprifuoco. i ragazzi sembrano tutti appena usciti da un allenamento di basket. guardo
qualche esemplare, ma è solo ricerca scientifica. per i prossimi dieci minuti mi posso risparmiare per isaac. mi chiedo se è già lì. mi chiedo se è nervoso come me. mi chiedo se ha passato anche lui tutto quel tempo a scegliere una maglietta. mi chiedo se per qualche scherzo del destino indosseremo la stessa cosa. del tipo che siamo così predestinati che gli dei hanno deciso di dirlo chiaro e tondo. mani sudate. ci sono. ossa tremanti. ci sono. la sensazione che l’ossigeno nell’aria sia stato sostituito con dell’elio. c’è. guardo la cartina quindici volte al secondo. ancora cinque isolati. quattro. tre. due. state street. l’angolo. cerco frenchy’s. penso che sarà un
locale o un bar o un negozio di musica indie. o magari anche solo un ristorante un po’ malandato. poi: arrivo e scopro... che è un sexy shop. penso che magari il sexy shop ha preso il nome da un altro posto qui vicino. magari in questo quartiere tutto quanto si chiama frenchy’s. ma no. faccio il giro dell’isolato. provo dall’altra parte. controllo l’indirizzo un sacco di volte. ed eccomi qui. sulla porta. ricordo che è stato un amico di isaac a suggerire questo posto. o almeno è così che mi ha detto. se è vero, magari è uno scherzo e il povero isaac è arrivato per primo e ci è rimasto malissimo e mi
sta aspettando dentro. o magari è una specie di prova cosmica. devo attraversare il fiume dell’imbarazzo più profondo per raggiungere il paradiso sull’altra sponda. il vento gelido mi soffia tutto attorno. e io entro.
capitolo sette Sento il b i n g elettronico, mi volto e vedo un ragazzo che entra. Naturalmente non gli vengono controllati i documenti e anche se è sul lato peloso della pubertà non c’è verso che abbia diciotto anni. È basso e ha gli occhi grandi e i capelli stopposi e un’aria assolutamente terrorizzata, come quella che probabilmente avrei avuto io se non fossi già stato portato oltre il limite dalla cospirazione anti-Will Grayson che ha coinvolto A. Jane e B. Tiny e C. l’esemplare pieno di piercing dietro il
bancone e D. il falsario sballato. Ma in ogni caso il ragazzo mi sta fissando con un’intensità che trovo inquietante, soprattutto considerato che stringo una copia di Mano a mano. Sono sicuro che ci sia una cifra di modi fantastici per far capire a un estraneo minorenne in piedi accanto alla Grande Muraglia di Vibratori che in realtà non sei un fan di Mano a mano, ma la strategia che scelgo io consiste nel borbottare: «Uh, è per un amico». Il che è vero, ma A. non è una scusa troppo convincente e B. implica che sono il tipo di ragazzo che è amico di tipi di ragazzi a cui piace Mano a mano, il che implica a sua volta che C. sono il tipo di ragazzo che regala riviste porno ai suoi amici.
Subito dopo aver detto: «È per un amico» mi rendo conto che avrei dovuto dire: «Sto cercando di imparare lo spagnolo». Il ragazzo continua a fissarmi e poi dopo un po’ socchiude gli occhi. Io reggo il suo sguardo per qualche secondo e poi mi volto dall’altra parte. Alla fine mi passa accanto e si infila nei corridoi dei video. Ho l’impressione che stia cercando qualcosa di specifico e che quel qualcosa di specifico non abbia a che fare con il sesso, e in questo caso mi sa che avrà qualche problema a trovarlo qui. Vaga verso il fondo del negozio, dove c’è una porta aperta che credo possa avere qualcosa a che fare con i gettoni di prima. Tutto ciò che
voglio è levarmi dalle palle con la mia copia di Mano a mano, così mi avvicino al tipo con i piercing e dico: «Soltanto questo, per favore». Lui lo fa passare sul registratore di cassa. «Nove e ottantatré» dice. «Nove DOLLARI?» chiedo incredulo. «E ottantatré centesimi» aggiunge lui. Scuoto il capo. Sta diventando uno scherzo parecchio costoso, ma non ho la minima intenzione di tornare all’espositore delle riviste per cercarne una in saldo. Ficco le mani in tasca e tiro fuori più o meno quattro dollari. Sospiro e poi infilo una mano nella tasca posteriore dei jeans e porgo al tizio la mia carta di credito. I miei mi controllano l’estratto conto, ma non
distingueranno Frenchy’s da Denny’s. Il tizio guarda la carta. Poi guarda me. Guarda la carta. E guarda me. E subito prima che parli, capisco: la mia carta è di William Grayson, mentre la patente è di Ishmael J. Biafra. Il tizio dice a voce piuttosto alta: «William Grayson. William Grayson. Dove ho già visto questo nome? Ah, giusto. NON sulla tua patente.» Ci penso sopra un attimo e poi dico sottovoce: «È la mia carta di credito. Conosco il pin. Provi a passarla». Lui la fa passare e dice: «Non me ne frega un cazzo, amico. I soldi sono soldi». E proprio in quel momento sento che l’altro ragazzo è dietro di me e mi sta guardando di nuovo e così mi volto e
lui dice: «Cosa hai detto?». Solo che non sta parlando con me. Parla con Piercing. «Ho detto che non me ne frega un cazzo della sua patente.» «Non hai chiamato me?» «Ma di che cazzo stai parlando, ragazzo?» «William Grayson. Hai detto William Grayson? Qualcuno ha telefonato qui per cercarmi?» «Eh? No. William Grayson è questo qui» dice Piercing indicandomi. «Cioè, ci sono due scuole di pensiero al riguardo. Ma è quello che c’è scritto sulla sua carta di credito.» Il ragazzo mi guarda con un’aria confusa per un minuto e alla fine dice:
«Come ti chiami?». Sto sclerando. Frenchy’s non è un posto in cui si viene per fare conversazione. Così dico a Piercing: «Posso avere la rivista?» e Piercing me la infila dentro un sacchetto di plastica nero opaco e senza scritte (cosa di cui gli sono molto grato) e poi mi dà la mia carta e la ricevuta. Esco dalla porta, faccio mezzo isolato di corsa per la Clark e poi mi siedo sul marciapiede e aspetto che mi rallenti un po’ il cuore. Le mie pulsazioni stanno diventando un po’ meno rapide quando il mio collega di Frenchy’s mi raggiunge di corsa a dice: «Tu chi sei?». «Mi alzo in piedi e dico: «Be’... Will Grayson».
«W-I-L-L G-R-A-Y-S-O-N?» ripete lui sillabando a una velocità pazzesca. «Sì» dico io. «Perché me lo chiedi?» Il ragazzo mi guarda per un secondo, la testa un po’ piegata di lato come se si chiedesse se lo sto prendendo in giro, e poi dice: «Perché anch’io sono Will Grayson». «Scherzi?» chiedo. «No» dice lui. Non riesco a decidere se è paranoico, schizofrenico o entrambe le cose, ma poi tira fuori un portafogli tenuto insieme con il nastro adesivo e mi fa vedere una carta d’identità dell’Illinois. I nostri secondi nomi sono diversi, ma per il resto... «Be’» dico io. «Piacere di conoscerti.» E poi faccio per voltarmi
perché non ho niente contro questo tizio ma non ho nessuna voglia di mettermi a chiacchierare con uno che frequenta i sexy shop, anche se tecnicamente sono anch’io uno che frequenta i sexy shop. Lui però mi tocca un braccio e sembra troppo piccolo per essere pericoloso, per cui mi giro verso di lui e lui mi dice: «Conosci Isaac?». «Chi?» «Isaac.» «Non conosco nessun Isaac, amico» dico. «Avrei dovuto incontrarlo in quel posto, ma non c’è. Tu non gli assomigli per niente, ma ho pensato... non lo so cosa ho pensato. Ma come... cosa diavolo sta succedendo?» Il ragazzo gira
su se stesso, come se stesse cercando un cameraman o qualcosa del genere. «È stato Isaac a organizzare tutto?» «Ti ho appena detto che non conosco nessun Isaac.» Lui si volta di nuovo, ma non c’è nessuno dietro di lui. Getta le braccia per aria e dice: «Non so neanche per cosa sclerare, in questo momento». «Mi sa che è stata una giornataccia per tutti i Will Grayson» dico io. Lui scuote la testa e si siede sul marciapiede e io faccio lo stesso, perché non c’è nient’altro da fare. Mi guarda, poi guarda dall’altra parte, poi ancora me. E poi si dà un pizzicotto sul braccio. Per davvero. «Chiaro che no. Mica ci riesco a inventarmi della roba
così strana nei miei sogni.» «Sì» dico io. Non capisco se vuole che parli con lui e non capisco neanche se io voglio parlare con lui, ma dopo un minuto dico: «Allora... ehm... come hai conosciuto questo Isaac che ti dà appuntamenti nei sexy shop?». «È solo... un mio amico. Ci conosciamo online da un sacco di tempo.» «Online?» Se possibile Will Grayson riesce a farsi ancora più piccolo. Si ingobbisce e guarda fisso il canaletto di scolo della strada. Naturalmente so che esistono altri Will Grayson. L’ho scoperto cercandomi su Google. Ma non ho mai pensato che ne avrei visto uno. Alla fine
dice: «Già». «Non lo hai mai visto fisicamente» dico io. «No,» dice lui «però l’avrò visto in un migliaio di foto». «Ha cinquant’anni» dico sicurissimo. «È un maniaco. Da Will a Will: non c’è verso che Isaac sia quello che pensi tu.» «Probabilmente è solo... non lo so, magari ha incontrato un altro cavolo di Isaac sull’autobus ed è finito in un universo parallelo.» «Perché diavolo ti avrebbe chiesto di vedervi da Frenchy’s?» «Buona domanda. Perché mai qualcuno dovrebbe voler andare in un sexy shop?» Mi fa una specie di occhiolino.
«Colpito e affondato» dico io. «Sì, è vero. C’è tutta una storia dietro.» Aspetto per un secondo che Will Grayson mi chieda di raccontargliela, ma non lo fa. Poi inizio lo stesso. Gli dico di Jane e di Tiny Cooper e dei Maybe Dead Cats e di Annus Miribalis e della combinazione dell’armadietto di Jane e del tizio della copisteria che non sa fare i conti e gli tiro fuori un paio di risate, ma perlopiù continua a guardare verso Frenchy’s in attesa di Isaac. Il suo volto sembra indeciso tra la speranza e la rabbia. In effetti mi presta pochissima attenzione, il che mi sta bene perché sto raccontando quella storia giusto per raccontarla e sto parlando a un estraneo perché è l’unico modo sicuro di parlare
che esista, e per tutto il tempo tengo la mano in tasca stretta attorno al telefono perché voglio essere sicuro di sentirlo vibrare se mi chiama qualcuno. E poi lui mi racconta di Isaac, di come sono amici da un anno e che ha sempre voluto incontrarlo perché non c’è nessuno come Isaac nella cittadina in cui abita lui e capisco quasi subito che a Will Grayson Isaac piace in modo perniente-platonico. «Quindi, cioè, che tipo di maniaco sarebbe?» dice Will. «Quale maniaco passa un anno a parlare con me, a raccontarmi tutto della sua vita finta mentre io gli racconto tutto della mia vita vera? E se un maniaco di cinquant’anni avesse fatto una cosa del genere, perché non si sarebbe presentato
da Frenchy’s per stuprarmi e uccidermi? È assolutamente impossibile anche in una serata assolutamente impossibile come questa.» Ci penso sopra un secondo. «Non lo so» dico alla fine. «La gente è strana di brutto, se non te n’eri accorto.» «Già.» Non si volta più verso Frenchy’s. Lo guardo con la coda dell’occhio e sono sicuro che lui mi guardi allo stesso modo, ma perlopiù ci guardiamo dritto di fronte, verso lo stesso punto della strada, mentre le auto ci rombano davanti e il mio cervello cerca di dare un senso a tutte le assurdità e a tutte le coincidenze che mi hanno portato qui. A tutte le cose vere-efalse. Stiamo zitti per un po’, così a
lungo che tiro fuori il cellulare e lo guardo per essere sicuro che non mi abbia chiamato nessuno e poi lo rimetto via e poi alla fine sento Will che distoglie lo sguardo da quel punto di fronte a noi e si volta verso di me e dice: «Secondo te cosa vuol dire?». «Cosa?» chiedo. «Non ci sono moltissimi Will Grayson» dice lui. «Deve voler dire qualcosa il fatto che un Will Grayson ne incontri un altro in un sexy shop in cui nessuno dei due aveva intenzione di entrare.» «Stai dicendo che è stato Dio a portare da Frenchy’s due Will Grayson minorenni di Chicago nello stesso momento?»
«No, cazzone» dice lui. «Però deve voler dire qualcosa.» «Già» dico io. «È difficile credere a una coincidenza, ma è più difficile credere a qualsiasi altra cosa.» E proprio in quel momento il mio cellulare prende vita e mentre lo tiro fuori di tasca inizia a suonare anche il cellulare di Will Grayson. E questa volta le coincidenze sono davvero troppe anche per me. Lui borbotta: «Cazzo, è Maura» come se io sapessi chi è Maura e poi fissa il telefono come se non sapesse se rispondere o no. Sul mio cellulare è comparso il nome di Tiny. Lo apro e dico a Will: «È il mio amico Tiny» e intanto guardo Will, che ha un’aria
carina e confusa. «Grayson!» urla Tiny sopra il frastuono della musica. «Mi sono innamorato di questa band! Restiamo per tipo altre due canzoni e poi vengo a prenderti. Dove sei, piccolo? Dov’è il mio tesoruccio adorato?» «Sono qui di fronte» urlo io. «E sarà meglio che ti inginocchi e ringrazi il Signore, perché ho qui un ragazzo per te.»
capitolo otto sono così sconvolto che mi potrebbero estrarre un pagliaccio dal culo e non sarei per niente stupito. forse andrebbe un pochino meglio se questo ALTRO WILL GRAYSON non fosse un will grayson ma il campione del mondo delle olimpiadi dello sconvolgimento del cervello. quando l’ho visto non ho pensato ehi, mi sa che anche quel ragazzo si chiama will grayson. no, l’unica cosa che ho pensato è stata ehi, quello non è isaac. cioè, l’età è quella giusta, ma la faccia no.
così l’ho ignorato. mi sono voltato verso il dvd che stavo facendo finta di studiare (un porno intitolato ragione e godimento). era una cosa di muccofilia con in copertina questi tizi travestiti da mucche. ho letto con un certo sollievo che nessuna vera mucca era stata coinvolta nelle riprese. però non era lo stesso il mio genere. lì accanto c’era un dvd intitolato gay’s anatomy , e per un secondo ho pensato non vedo l’ora di raccontarlo a isaac, dimenticando che teoricamente lui avrebbe dovuto essere lì con me. non che se fosse entrato non me ne sarei accorto: il negozio era vuoto a parte me, l’a.w.g. e il commesso. credo che tutti gli altri stessero scaricando i
loro porno da internet e frenchy’s non era esattamente invitante: sembrava un autogrill dove la plastica era ancora più plasticosa e il metallo più metalloso e la gente nuda sulle copertine dei dvd sembrava molto poco figa. dopo essere passato davanti a incontri ravvicinati di ogni tipo e porchaontas mi sono ritrovato in questa bizzarra sezione dedicata ai cazzi finti, e dato che ho una mente parecchio contorta ho iniziato immediatamente a immaginare un sequel di toy story intitolato sex toy story dove tutti i dildo e i vibratori e le orecchie di coniglio prendono vita all’improvviso e devono fare delle cose tipo attraversare la strada per tornare a casa. e mentre pensavo a queste cose mi è venuto di
nuovo in mente che avrei voluto raccontarlo a isaac. poi sono stato distratto dal tizio dietro il bancone che diceva il mio nome. ed è stato così che ho conosciuto l’a.w.g. per cui di base sono entrato in un sexy shop a cercare isaac e ne sono uscito con un altro will grayson. mi sa che a dio piace parecchio prenderci per il culo. naturalmente al momento penso la stessa cosa anche di isaac. spero che magari sia andata diversamente, tipo che magari è arrivato e ha scoperto che il posto che il suo amico aveva consigliato era un sexy shop ed era così mortificato che è scappato via in lacrime. cioè, è possibile. o magari è solo in ritardo. gli
devo dare almeno un’ora. magari il suo treno è rimasto incastrato in una galleria o roba del genere. sono cose che possono succedere. in fondo viene dall’ohio. quelli dell’ohio sono sempre in ritardo. il mio telefono squilla praticamente nello stesso momento di quello dell’a.w.g. anche se è pateticamente improbabile che sia isaac, un po’ ci spero lo stesso. poi vedo che è maura. io: cazzo, è maura. all’inizio penso di non rispondere, ma poi a.w.g. risponde alla sua chiamata. a.w.g.: è il mio amico tiny.
se a.w.g. risponde, magari è meglio se rispondo anch’io. mi viene anche in mente che maura mi sta facendo un favore. se poi dovessi scoprire che la gara di matematletica è stata presa d’assalto da una squadra di fanatici delle materie umanistiche armati di uzi, mi sentirei in colpa per non avere risposto al telefono e non avere detto addio a maura. io: veloce... qual è la radice quadrata delle mie mutande? maura: ciao, will. io: con questa risposta guadagni zero punti. maura: com’è chicago? io: niente vento.
maura: cosa fai? io: oh, vado in giro con will grayson. maura: è quello che immaginavo. io: in che senso? maura: dov’è tua mamma? uh-oh. mi sa di trappola. maura ha chiamato a casa mia? ha parlato con mia mamma? motori, indietro tutta! io: sono forse io il custode di mia madre? (ah ah ah) maura: smettila di raccontare balle, will. io: va bene, va bene. avevo bisogno di scapparmene via da solo. dopo devo andare a un concerto. maura: di chi?
cazzo! non mi ricordo a quale concerto doveva andare a.w.g.! ed è anche lui al telefono, per cui non glielo posso chiedere. io: una band che non hai mai sentito. maura: mettimi alla prova. io: mmm... si chiamano proprio così. una band che non hai mai sentito. maura: oh, li ho già sentiti. io: sì, come no. maura: ho appena letto una recensione del loro album su spin. io: figo. maura: l’album si intitola isaac non verrà, bugiardo di merda. non va niente bene.
io: è un titolo piuttosto stupido per un album. maura: smettila, will. io: la mia password. maura: cosa? io: hai craccato la mia password. hai letto le mie mail, vero? maura: di cosa stai parlando? io: di isaac. come fai a sapere che mi dovevo vedere con isaac? deve avermi tenuto d’occhio mentre controllavo la posta a scuola. deve avere visto i tasti che premevo. mi ha rubato la password. maura: isaac sono io, will. io: non essere stupida. è un ragazzo. maura: no, invece. è un profilo. me lo
sono inventato io. io: sì, figurati. maura: ti dico di sì. no. no no no no no no no no no no no no no. io: cosa? no per favore no questo no no per favore no cazzo no NO. maura: isaac non esiste. non è mai esistito. io: non puoi... maura: ci sei cascato. ci sono CASCATO?!?
io: dimmi che stai scherzando. maura: ... io: non può essere vero. l’altro will grayson ha finito di parlare al telefono e mi sta guardando. a.w.g.: va tutto bene? è arrivata la botta. il momento tipo mi-sembra-che-mi-sia-appena-arrivatain-testa-un’incudine è passato e adesso la sento, l’incudine. oddio, quanto la sento! io: lurida troia. sì, adesso veicolando le
le sinapsi informazioni.
stanno notizie
dell’ultima ora: isaac non è mai esistito. era solo la tua amica che faceva finta. era tutta una bugia. tutta una bugia. io: puttana maledetta. maura: com’è che alle ragazze non danno mai delle coglione? io: non ho intenzione di insultare così i coglioni. almeno servono a qualcosa. maura: senti, sapevo che ti saresti arrabbiato... io: tu SAPEVI che mi sarei ARRABBIATO??? maura: avevo intenzione di dirtelo. io: grazie tante. maura: ma tu non me ne hai mai parlato.
adesso a.w.g. sembra molto preoccupato, così metto una mano sul telefono per parlargli. io: in effetti non va tutto bene. probabilmente questo è il peggiore minuto della mia vita. resta qui. a.w.g. annuisce. maura: will? senti, mi dispiace. io: ... maura: non hai pensato davvero che ti volesse incontrare in un sexy shop, vero? io: ... maura: era uno scherzo. io: ... maura: will?
io: è solo per rispetto nei confronti dei tuoi genitori che evito di ucciderti subito. però ricordati bene una cosa: io non ti parlerò mai più e non ti scriverò mai più e non ti manderò mai più sms e non comunicherò mai più con te neanche con il linguaggio dei segni, capito? preferirei mangiare una merda di cane piena di lamette che avere ancora a che fare con te. chiudo la comunicazione prima che possa dirmi qualsiasi cosa. spengo il telefono. mi siedo sul marciapiede. chiudo gli occhi. e urlo. se il mondo mi deve crollare addosso, che ci siano almeno delle urla. voglio urlare finché non mi spacco tutte le ossa.
una volta. due. ancora. poi mi fermo. sento le lacrime che premono e spero che se tengo gli occhi chiusi non usciranno. sono il massimo del patetico. vorrei aprire gli occhi e vedere isaac che mi dicesse che maura è impazzita o che l’altro will grayson mi dicesse che anche questa può essere solo una coincidenza. che è lui il will grayson che maura ha preso in giro. che ha sbagliato will grayson. ma la realtà... be’... la realtà è l’incudine. faccio un respiro profondo e mi sento soffocare. per tutto questo tempo. per tutto questo tempo è sempre stata maura.
non isaac. niente isaac. mai. ferite. dolore. ferite e dolore insieme. a.w.g.: ehm... will? è come se potesse vedermi chiaramente in faccia le ferite e il dolore. io: sai il ragazzo che dovevo incontrare? a.w.g.: isaac. io: sì, isaac. be’, è saltato fuori che non era un cinquantenne. era la mia amica maura che mi faceva uno scherzo. a.w.g.: bello scherzo di merda. io: sì. proprio come mi sento io.
non so se gli sto parlando perché si chiama anche lui will grayson o perché lui mi ha raccontato qualcosa di quello che gli stava succedendo o perché è l’unica persona al mondo disposta ad ascoltarmi in questo momento. il mio istinto mi dice di appallottolarmi per terra e lasciarmi cadere nella fogna più vicina... ma non voglio fare una cosa del genere ad a.w.g.: merita di meglio che fare da testimone oculare alla mia autodistruzione. io: ti è mai successa una cosa del genere? a.w.g. scuote la testa. a.w.g.: mi sa di no. il mio migliore
amico tiny una volta stava per iscrivermi al concorso del ragazzo del mese di seventeen senza dirmelo, ma non credo che sia proprio la stessa cosa. io: come lo hai scoperto? a.w.g.: ha deciso che qualcuno doveva correggere l’ortografia della lettera d’iscrizione e ha chiesto a me di farlo. io: hai vinto? a.w.g.: gli ho detto che l’avrei spedita io e poi l’ho nascosta da qualche parte. era dispiaciutissimo che non avessi vinto... ma credo che lo sarebbe stato di più se avessi vinto. io: avresti potuto incontrare miley cyrus. jane sarebbe morta di gelosia. a.w.g.: credo che sarebbe morta
prima dalle risate. non posso farci niente: mi immagino isaac che ride. e poi devo fare di tutto per cancellare quell’immagine. perché isaac non esiste. mi sembra di impazzire. io: perché? a.w.g.: perché jane sarebbe morta dalle risate? io: no, perché maura avrebbe fatto una cosa del genere? a.w.g.: sinceramente non te lo so proprio dire. maura. isaac. isaac. maura.
incudine. incudine. incudine. io: lo sai qual è la cosa schifosa dell’amore? a.w.g.: quale? io: che è così legato alla verità. mi stanno tornando le lacrime. perché quel dolore... so che sto perdendo tutto. isaac. la speranza. il futuro. questi sentimenti. quelle parole. sto perdendo tutto. e fa male. a.w.g.: will? io: credo di avere bisogno di chiudere gli occhi per un minuto e provare quello che devo provare.
chiudo gli occhi, chiudo il corpo, cerco di chiudere fuori tutto quanto. sento a.w.g. che si alza in piedi. vorrei che fosse isaac, anche se so che non è lui. vorrei che maura non fosse isaac, anche se so che è lei. vorrei essere qualcun altro, anche se so che non riuscirò mai a superare quello che ho fatto e quello che mi hanno fatto. dio, regalami una bella amnesia. fammi dimenticare tutti i momenti che non ho mai avuto veramente con isaac. fammi dimenticare che maura esiste. deve essere così che si è sentita mia madre quando mio padre le ha detto che era finita. adesso lo capisco. lo capisco. le cose in cui speri di più sono quelle che alla fine ti distruggono.
sento dei passi che si avvicinano. cerco di calmarmi un po’, poi apro gli occhi... e vedo questo tizio immenso fermo di fronte a me. quando si accorge che mi sono accorto di lui, mi fa un sorrisone. giuro che ha delle fossette grandi come la testa di un neonato. tizio immenso: ciao. io sono tiny. mi porge la mano. io non sono molto dell’umore, ma lasciarlo lì così sarebbe imbarazzante, per cui gli porgo anch’io la mano. lui, invece di stringerla, mi solleva in piedi. tiny: è morto qualcuno? io: sì. io.
lui sorride di nuovo. tiny: be’, allora benvenuto nell’aldilà.
capitolo nove Si possono dire molte brutte cose di Tiny Cooper. Io lo so bene, perché le ho dette. Ma per essere un tizio che non ha la minima idea di come gestire le proprie relazioni, Tiny Cooper è piuttosto brillante quando si tratta del cuore spezzato degli altri. Tiny è come una specie di spugna gigantesca che risucchia pene d’amore perduto ovunque vada. Ed è quello che succede con Will Grayson. L’altro Will Grayson, voglio dire. Jane è una vetrina più in là e parla al
telefono. La guardo, ma lei è voltata e mi chiedo se abbiano suonato la canzone. C’è una cosa che ha detto Will (l’altro Will) subito prima che arrivassero Tiny e Jane che continua a ronzarmi in testa: l’amore è legato alla verità. Li immagino come due gemelli siamesi infelici di esserlo. «Ovviamente» sta dicendo Tiny «lei è un ammasso di merda di dimensioni ciclopiche, ma devo ammettere che il nome non è male. Isaac. Voglio dire, potrei quasi innamorarmi anche di una ragazza se si chiamasse Isaac.» L’altro Will Grayson non ride, ma Tiny non si fa abbattere. «Devi avere sclerato un bel po’ quando hai scoperto che era un sexy shop, eh? Cioè, chi è che
ti dà un appuntamento in un posto del genere?» «E poi anche quando ha trovato un suo omonimo che comprava una rivista» dico io sollevando il sacchetto e immaginando che Tiny lo afferrerà per vedere cosa c’è dentro. Ma non lo fa. Dice soltanto: «È ancora peggio di quello che è successo a me e Tommy». «Cosa è successo a te e Tommy?» chiede Will. «Mi ha detto che era biondo naturale, ma si era tinto così male che sembrava una Barbie. E poi Tommy non era il diminutivo di Tomas, come mi aveva detto, ma del solito banalissimo Thomas.» Will dice: «Sì, questo è peggio.
Molto peggio». Chiaramente non ho un gran contributo da dare alla conversazione, e in ogni caso Tiny sta facendo come se io non esistessi, per cui sorrido e dico: «Vi lascio un po’ soli, ragazzi». E poi guardo l’altro Will Grayson e lui sta beccheggiando, come se potesse cadere al primo alito di vento. Vorrei dire qualcosa, perché mi dispiace davvero un sacco per lui, ma non so mai cosa dire. Così dico solo quello che sto pensando: «Lo so che è uno schifo, ma in un certo senso è un bene». Lui mi guarda come se avessi appena detto la più grande idiozia del mondo, il che tra l’altro è vero. «Cioè, l’amore e la verità sono legati insieme. Si rendono possibili a
vicenda, no?» Will mi concede un ottavo di sorriso e poi torna a voltarsi verso Tiny, che, per dirla tutta, è un terapista molto più bravo di me. Il sacchetto nero con Mano a mano non sembra più divertente, per cui lo lascio cadere a terra accanto a Tiny e Will. Loro non se ne accorgono neppure. Jane adesso è in punta di piedi sul marciapiede, mezza sporta verso la strada affollata di taxi. Un gruppo di universitari passa e la guarda. Uno di loro fa un cenno a un altro. Sto ancora pensando al legame tra amore e verità, il che mi fa venire voglia di dirle la verità, tutta la contraddittoria verità, perché altrimenti, in qualche modo, non sono
come quella ragazza? Non sono come la ragazza che faceva finta di essere Isaac? Mi avvicino a Jane e cerco di toccarle il gomito da dietro ma il mio tocco è troppo leggero e le sfioro soltanto la giacca. Lei si volta verso di me e vedo che è ancora al cellulare. Faccio un gesto che dovrebbe voler dire: «Ehi, tranquilla, non c’è fretta, parla quanto vuoi» e probabilmente invece verrà interpretato come: «Ehi, guardami, ho le mani spastiche». Jane solleva un dito. Io annuisco. Lei parla sottovoce al telefono. Fa una voce carina. Dice: «Sì, lo so. Anch’io». Faccio un passo indietro sul marciapiede e mi appoggio al muro tra Frenchy’s e un ristorante giapponese
chiuso. Alla mia destra Will e Tiny stanno parlando. Alla mia sinistra Jane sta parlando. Tiro fuori il cellulare come se dovessi mandare un sms, e invece passo in rassegna la mia rubrica. Clint. Jane. Mamma. Gente di cui ero amico. Gente che conosco vagamente. Papà. Tiny. Dopo la T più niente. Non è un granché per un telefono che ho da tre anni. «Ehi» dice Jane. Io sollevo lo sguardo, chiudo il cellulare e le sorrido. «Mi dispiace per il concerto.» «Non c’è problema» le rispondo. Ed è vero. «Chi è lui?» mi chiede indicando Will. «Will Grayson» dico io. Lei mi
guarda confusa. «Ho incontrato un altro Will Grayson in quel sexy shop» le spiego. «Io ero lì per usare la mia patente falsa e lui è entrato per incontrare il suo falso fidanzato.» «Cazzo, se avessi saputo che succedeva una cosa del genere non sarei andata al concerto.» «Già» dico io cercando di non sembrare arrabbiato. «Facciamo due passi.» Lei annuisce. Ci avviamo verso Michigan Avenue, il Magnificent Mile, patria di tutte le più grandi catene commerciali di Chicago. Adesso è tutto chiuso e i turisti che di giorno invadono i larghi marciapiedi sono tornati ai loro alberghi, che svettano cinquanta piani
sopra di noi. Se ne sono andati anche i senzatetto che chiedono l’elemosina ai turisti, e siamo quasi solo io e Jane. Non si può dire la verità senza parlare, per cui le racconto tutta la storia cercando di renderla divertente, cercando di renderla più grandiosa di qualsiasi concerto dei MDC. E quando finisco c’è una pausa e poi lei mi domanda: «Posso chiederti una cosa che non c’entra niente?». «Sì, certo.» Stiamo passando davanti a Tiffany e mi fermo per un secondo. La luce giallina dei lampioni rischiara appena il negozio attraverso il vetro antisfondamento e la grata di protezione. Vedo un espositore vuoto, un collo di velluto grigio senza alcun gioiello
addosso. «Tu credi nelle epifanie?» mi chiede Jane. Ricominciamo a camminare. «Mmm... potresti spiegarti meglio?» «Cioè, credi che l’atteggiamento delle persone possa cambiare? Che un giorno ti svegli e capisci una cosa, vedi una cosa in un modo in cui non l’hai mai vista prima e bum, ecco un’epifania. Qualcosa è cambiato per sempre. Credi in queste cose?» «No» rispondo. «Credo che niente succeda all’improvviso. Tipo Tiny, per esempio. Pensi che Tiny si innamori ogni giorno? No. Lui pensa di farlo, ma non è così. Cioè, qualsiasi cosa succeda all’improvviso poi potrà smettere di succedere altrettanto all’improvviso,
no?» Lei non dice niente per un po’. Cammina e basta. La mia mano è vicina alla sua. Si sfiorano, ma non succede niente. «Sì, forse hai ragione» dice alla fine. «Perché me lo chiedi?» «Non lo so. Così.» Il linguaggio umano esiste da parecchio tempo. E nessuno ha mai chiesto una cosa che non c’entra niente sulle epifanie così. Le cose che non c’entrano niente c’entrano sempre moltissimo. «Chi ha avuto un’epifania?» chiedo. «Mmm... credo che in realtà tu sia la persona peggiore a cui raccontare questa cosa» dice lei. «Perché?»
«Lo so che è stato parecchio stronzo da parte mia andare al concerto» dice. Raggiungiamo una panchina e lei ci si siede. «Va bene così» dico io sedendomi accanto a lei. «Non va bene per niente, invece. Credo che il problema sia che sono un po’ confusa.» Confusa. Il telefono. La vocina dolce. Le epifanie. Finalmente capisco la verità. «L’ex ragazzo» dico. Sento lo stomaco che sprofonda come se stesse nuotando in una fossa oceanica e capisco la verità vera: lei mi piace. È carina ed è intelligentissima in un modo un po’ pretenzioso che va benissimo così, e nel suo volto c’è qualcosa di
morbido che rende più affilato tutto quello che dice e lei mi piace e non è solo che dovrei essere sincero con lei. Voglio esserlo. Perché queste cose sono legate insieme, credo. «Ho un’idea» dico. Sento che mi sta guardando e mi tiro su il colletto della giacca. Mi bruciano le orecchie per il freddo. E lei dice: «Che idea?». «L’idea è che per dieci minuti ci dimentichiamo di avere dei sentimenti. E ci dimentichiamo di proteggere noi stessi e gli altri e diciamo solo la verità. Per dieci minuti. E poi torniamo a fare gli stronzi.» «Mi piace quest’idea» dice lei. «Però cominci tu.»
Sollevo la manica della giacca e guardo l’orologio. Le 22:42. «Pronta?» chiedo. Lei annuisce. Guardo ancora l’orologio. «Va bene. Via! Tu mi piaci. E non sapevo se mi piacevi finché non ho pensato a te a quel concerto con qualche altro ragazzo, ma adesso lo so e mi rendo conto che questo fa di me uno strillacagne ma sì, mi piaci. Credo che tu sia fantastica e molto carina... e per carina intendo bellissima, ma non voglio dirlo perché sembra banale, però tu lo sei per davvero... e non mi dispiace nemmeno che tu sia una tale snob in fatto di musica.» «Non sono snob: si chiama avere buongusto. Io stavo con questo ragazzo e sapevo che sarebbe stato al concerto, e
volevo andarci con te in parte perché sapevo che ci sarebbe stato Randall ma ci volevo anche andare senza di te perché sapevo che lui ci sarebbe stato, e poi lui mi ha vista mentre i Maybe Dead Cats cantavano A Brief Overview of Time Travel Paradoxes e mi ha urlato all’orecchio di come ha avuto un’epifania e adesso è sicuro che noi dobbiamo stare insieme e io gli ho detto che non ci pensavo proprio e lui mi ha citato una poesia di E.E. Cummings su come i baci sono un fato migliore della saggezza, e poi scopro che ha chiesto ai MDC di dedicarmi una canzone che è il genere di cosa che prima non avrebbe mai fatto e io sento di meritare qualcuno a cui piaccio sempre e non mi sembra
che con te sia così e non lo so.» «Quale canzone?» «Annus Miribalis. Lui è l’unico a conoscere la combinazione del mio armadietto e ha fatto in modo che loro la dedicassero alla mia combinazione, che è proprio una cosa... cioè... non lo so. Ecco.» Anche se questi sono i minuti della verità, non le dico della canzone. Non posso. È troppo imbarazzante. Il fatto è che se a farlo è stato il tue ex è una cosa dolce. Se invece è stato quello che non ti ha baciata sulla tua Volvo arancione è una cosa strana e forse anche cattiva. Ha ragione lei: si merita qualcuno di più costante, e forse io non posso essere quel qualcuno. Comunque do addosso al
suo ex: «Io li odio i ragazzi che recitano le poesie alle ragazze. Visto che ci stiamo dicendo le cose come stanno. E poi la saggezza è un fato migliore della grande maggioranza dei baci. Di sicuro è un fato migliore rispetto a baciare un viscido che legge poesie solo per usarle per infilarsi nelle mutandine delle ragazze». «Accidenti» dice lei. «Will il Sincero e Will il Normale sono proprio diversi!» «A dire la verità, preferisco il solito banale somaro con gli occhi vacui e l’espressione stolida a quelli che fanno finta di essere alternativi leggendo poesie e ascoltando musica decente. Io ho lavorato duro per essere alternativo.
Mi sono fatto prendere a calci in culo per tutte le medie, per essere alternativo. Me la sono guadagnata onestamente la mia merda, io.» «Ma se non lo conosci neanche» dice lei. «Non mi serve conoscerlo» rispondo. «Senti, hai ragione. Forse non mi piaci come dovresti piacermi. Non mi piaci del tipo ti-chiamo-e-ti-leggo-unapoesia-ogni-sera-prima-di-dormire. Io sono pazzo, va bene? A volte penso Dio, è fighissima e intelligente e un po’ pretenziosa ma di una pretenziosità che mi fa venire voglia di stare con lei , e poi altre volte penso che sia una pessima idea, che stare con te sarebbe come una serie di devitalizzazioni non
necessarie intervallate da un po’ di sesso.» «Cavoli, mi hai quasi convinta.» «Non importa, perché io penso tutte e due le cose! E non importa perché io sono il tuo Piano B. Forse sono il tuo Piano B perché sento queste cose o forse le sento perché sono il tuo Piano B, ma in ogni caso vuole dire che tu dovresti stare con Randall e io dovrei stare nella mia condizione naturale di esilio autoimposto.» «Una bella differenza!» dice di nuovo. «Puoi essere sempre così?» «Probabilmente no» dico io. «Quanti minuti ci restano?» «Quattro.» E poi ci baciamo.
Questa volta sono io a chinarmi verso di lei, e lei non si volta. Fa freddo, le nostre labbra sono secche, i nostri nasi un po’ umidi, le fronti sudate sotto i berretti di lana, non le posso toccare la faccia, anche se vorrei, perché porto i guanti. Ma Dio, quando le sue labbra si aprono tutto diventa caldo e il suo alito dolcissimo è dentro la mia bocca e io probabilmente so di hot dog ma non mi interessa. Mi bacia come se stesse divorando una torta buonissima e io non so dove toccarla perché la vorrei tutta. Vorrei toccarle le ginocchia e i fianchi e la pancia e la schiena e tutto quanto, ma siamo incastrati dentro tutti questi vestiti per cui siamo soltanto due marshmallow che sbattono l’uno contro l’altro, e Jane
mi sorride mentre ci stiamo ancora baciando perché sa anche lei quanto tutto questo è ridicolo. «Meglio della saggezza?» chiede con il naso che mi tocca la guancia. «Se la giocano» dico mentre le sorrido e la tiro ancora verso di me. Non ho mai saputo prima cosa volesse dire volere qualcuno... non volerci fare qualcosa, ma volere proprio quella persona. Adesso lo so. Quindi forse credo nelle epifanie. Lei si stacca da me quanto basta per dire: «Come mi chiamo di cognome?». «Non ne ho idea» rispondo immediatamente. «Turner.» Le rubo un ultimo bacetto, dopodiché
lei si tira su, anche se la sua mano avvolta nel guanto resta contro il mio petto coperto dalla giacca. «Vedi, noi non ci conosciamo neanche. Devo scoprire se credo nelle epifanie, Will.» «Non ci posso credere che quello si chiama Randall. Non va a Evanston, vero?» «No, va alla Latin. Ci siamo incontrati a una gara di poesia.» «Ovvio. Mio Dio, è come se ce l’avessi davanti agli occhi, quel bastardo viscido: è alto, con i capelli arruffati, fa sport, probabilmente calcio, ma finge che non gli piaccia più di tanto perché a lui piacciono la poesia e la musica e gli piaci tu, e pensa che tu sia una poesia e te lo dice ed è tutto un
tripudio di fiducia in se stesso e deodorante.» Jane scoppia a ridere e scuote la testa. «Cosa?» le chiedo. «Pallanuoto» dice. «Non calcio.» «Oh, Gesù! Ma certo. Pallanuoto. Sì, la pallanuoto è incredibilmente punk.» Lei mi afferra il braccio e guarda l’orologio. «Un minuto» dice. «Stai meglio con i capelli tirati indietro» le dico di corsa. «Davvero?» «Sì, sennò sembri un po’ un cucciolo.» «Tu stai meglio quando stai dritto» dice lei. «Tempo!» dico io.
«Va bene» dice lei. «È un peccato che non possiamo farlo più spesso.» «Quale parte?» chiedo sorridendo. Lei si alza. «Devo tornare a casa. Stupido coprifuoco di mezzanotte del fine settimana.» «Sì» dico io. Tiro fuori il telefono. «Chiamo Tiny e gli dico che ce ne andiamo.» «Prendo un taxi.» «No, chiamo...» Ma lei è già sul bordo del marciapiede sulla punta delle sue All Star, la mano sollevata. Si ferma un taxi. Mi abbraccia velocemente, un abbraccio tutto punta delle dita e scapole, e se ne va senza una parola.
Non sono mai stato da solo in città così tardi, e non c’è nessuno in giro. Chiamo Tiny. Non risponde. Segreteria telefonica. «Questa è la segreteria telefonica di Tiny Cooper, autore, produttore e star del nuovo musical Tiny Dancer: la storia di Tiny Cooper. Mi dispiace, ma a quanto pare al momento mi sta succedendo qualcosa di più favoloso della tua telefonata. Quando i livelli di favolosità si saranno abbassati, ti richiamerò. BIP.» «Tiny, la prossima volta che provi a farmi mettere insieme a una ragazza con un fidanzato segreto, mi puoi almeno informare che ha un fidanzato segreto? Se non mi richiami nel giro di cinque minuti darò per scontato che hai trovato
un modo per tornare a Evanston. E comunque sei una testa di cazzo. Passo e chiudo.» Su Michigan Avenue ci sono i taxi e un flusso ininterrotto di auto, ma appena raggiungo una strada laterale, la Huron, è più tranquillo. Passo davanti a una chiesa e poi risalgo State Street verso Frenchy’s. Capisco da tre isolati di distanza che Tiny e Will non ci sono più, ma continuo comunque a camminare fino alla vetrina del sexy shop. Guardo su e giù per la strada ma non vedo nessuno, e in ogni caso Tiny non sta mai zitto, per cui se fosse nei paraggi lo sentirei. Perquisisco il fondo delle mie tasche alla ricerca delle chiavi. Le tiro fuori. Sono avvolte nel biglietto che mi ha
scritto Jane, quello firmato La Houdini degli armadietti. Sto camminando lungo la strada verso l’auto quando vedo un sacchetto di plastica nera sul marciapiede, che svolazza al vento. Mano a mano. Lo lascio lì, pensando che probabilmente domani qualcuno ne sarà contento. Per la prima volta da un sacco di tempo guido senza musica. Non sono felice... non sono felice per Jane e Mister Randall Pallanuoto Facciadiverme IV, non sono felice che Tiny mi abbandoni senza neanche una telefonata, non sono felice della mia patente falsa non abbastanza falsa... ma nel buio di Lake Shore, con l’auto che si mangia tutti i rumori, c’è qualcosa nel
torpore delle mie labbra dopo avere baciato Jane che voglio conservare, a cui mi voglio aggrappare, qualcosa che sembra puro, che sembra la pura verità. Arrivo a casa quattro minuti prima del coprifuoco e i miei sono sul divano. I piedi di mamma sono appoggiati sulle gambe di papà. Papà azzera il volume della tv e dice: «Com’era?». «Niente male» dico io. «Hanno suonato Annus Miribalis?» chiede mamma, perché mi piaceva così tanto che gliel’ho fatta sentire. Immagino che lo chieda in parte per sembrare alla moda e in parte per assicurarsi che sia andato davvero al concerto. Probabilmente più tardi controllerà la
scaletta. Naturalmente non sono andato al concerto, ma so che hanno suonato quella canzone. «Sì» dico. «Sì. È stato bello.» Resto a guardarli per un secondo e poi dico: «Ok, vado a letto». «Perché non guardi un po’ di tv con noi?» chiede papà. «Sono stanco» dico con voce piatta, e mi volto. Ma non vado a letto. Vado in camera mia e mi collego e inizio a leggere di E.E. Cummings. La mattina dopo mamma mi accompagna a scuola presto. In corridoio passo davanti a una serie di poster di Tiny Dancer.
OGGI AUDIZIONI. TEATRO, NONA ORA. PREPARATEVI A CANTARE. PREPARATEVI A BALLARE. PREPARATEVI A ESSERE FAVOLOSI. NEL CASO NON ABBIATE VISTO IL POSTER PRECEDENTE, LE AUDIZIONI SONO OGGI. CANTA & BALLA & CELEBRA LA TOLLERANZA NEL MUSICAL PIÙ IMPORTANTE DELLA NOSTRA EPOCA. Percorro i corridoi a passo veloce e poi salgo le scale fino all’armadietto di Jane e ci infilo dentro il biglietto che ho scritto questa notte:
Per: La Houdini degli armadietti. Da: Will Grayson Oggetto: Un esperto in bravi fidanzati? Cara Jane, tanto perché tu lo sappia: E.E. Cummings ha tradito tutte e due le sue mogli. Con delle prostitute. Tuo, Will Grayson
capitolo dieci tiny cooper. tiny cooper. tiny cooper. mi continuo a ripetere il suo nome dentro la testa. tiny cooper. tiny cooper. è un nome ridicolo e tutta la faccenda è ridicola e non riuscirei a smettere nemmeno se lo volessi. tiny cooper. se lo dico abbastanza volte, magari smetterò di stare male perché isaac non
esiste. inizia tutto quella sera. davanti a frenchy’s. io sono ancora scioccato. non capisco se è stress post-traumatico o trauma post-stress. in ogni caso un bel pezzo della mia vita è appena stato cancellato e non provo alcun desiderio di riempire quel vuoto. lascialo così, mi dico. voglio solo morire. ma tiny non me lo permette. sta giocando a a-me-è-successo-di-peggio, che non funziona mai, perché o il tizio dice qualcosa che non è affatto peggio (non era un biondo naturale) oppure dice qualcosa che è così tanto peggio che ti sembra che tutti i tuoi sentimenti siano stati completamente negati (be’, una
volta un tizio mi ha tirato un bidone... e alla fine si è scoperto che era stato mangiato da un leone! la sua ultima parola è stata il mio nome). però sta cercando di aiutarmi. e credo che dovrei essergliene grato. anche a.w.g. sta cercando di aiutarmi. c’è una ragazza che fluttua sullo sfondo ed è chiaro che è la - tristemente famosa jane. all’inizio il tentativo di a.w.g. di aiutarmi fa ancora più schifo di quelli di tiny. a.w.g.: lo so che è uno schifo, ma in un certo senso è un bene. questa frase mi può aiutare più o meno quanto un film di hitler che se la spassa con la sua ragazza. se la gioca
alla pari con la regola della merda di piccione. sapete, quando la gente dice che se un piccione ti caga addosso porta fortuna? e ci credono pure! io vorrei soltanto prenderli per il colletto e dire: «amico, non ti rendi conto che questa stronzata è stata inventata perché a nessuno veniva in mente niente di meglio da dire a uno a cui avevano appena cagato addosso?». la gente lo fa di continuo, e neanche solo con roba temporanea come la merda di piccione. hai perso il lavoro? è una grande opportunità! la tua vita è un disastro? adesso puoi solo risalire! un ragazzo che non è mai esistito ti ha tirato un bidone? lo so che è uno schifo, ma in un certo senso è un bene.
sto per strappare di dosso ad a.w.g. il suo diritto a essere un will grayson quando lui va avanti. a.w.g. cioè, l’amore e la verità sono legati insieme. si rendono possibili a vicenda, no? non so cosa mi colpisce di più: il fatto che un estraneo mi abbia ascoltato o che tecnicamente abbia assolutamente ragione. l’altro will grayson si allontana lasciandomi con il mio nuovo amico grosso come un frigorifero, che mi sta guardando con tanta sincerità che vorrei prenderlo a schiaffi. io:
non c’è bisogno che resti.
davvero. tiny: e cosa dovrei fare? lasciarti qui con quel muso lungo? io: qui non è questione di muso lungo. sono disperato. tiny: awwwww e poi mi abbraccia. immaginate di essere abbracciati da un divano. uguale. io (soffocando): sto soffocando. tiny (accarezzandomi i capelli): tranquillo, tranquillo. io: amico, non mi stai aiutando. lo spingo via. lui sembra ferito. tiny: mi hai appena chiamato amico! io: scusa, è solo che...
tiny: sto solo cercando di aiutarti! è per questo che mi dovrei portare dietro delle pillole di riserva. credo che al momento una dose doppia servirebbe a tutti e due. io (ancora): scusa. mi guarda. ed è strano, perché mi gua r d a per davvero. mi fa sentire incredibilmente a disagio. io: cosa? tiny: vuoi sentire una canzone tratta da tiny dancer? io: eh? tiny: è un musical su cui sto lavorando. è basato sulla mia vita. credo
che una delle canzoni potrebbe essere utile in questo momento. siamo a un angolo di strada davanti a un sexy shop. ci sono dei passanti. gente di chicago. non c’è niente di meno musicale della gente di chicago. io sono a pezzi e la mia mente sta avendo un attacco di cuore. l’ultima cosa che mi serve è che la cicciona si metta a cantare. ma protesto? decido di vivere per il resto della mia vita dentro la metropolitana nutrendomi di ratti? no. annuisco poco convinto, perché lui ha così tanta voglia di cantare questa canzone che a dire di no mi sentirei troppo uno stronzo. tiny abbassa un po’ la testa e inizia a
borbottare tra sé. una volta trovato il tono chiude gli occhi, apre le braccia e canta: Credevo che avresti realizzato i miei sogni ma non eri tu, non eri tu. Credevo che questa volta sarebbe stato tutto diverso ma non eri tu, non eri tu. Immaginavo tutte le cose avremmo fatto ma non eri tu, non eri tu.
che
E adesso sento che il cuore è finito ma non è vero, non è vero.
Potrò anche essere grosso e spaventato ma la mia fede nell’amore non cederà! Anche se sono stato buttato fuori pista non scenderò dal mio fedele cavallo! Non eri tu, è vero ma nella vita c’è molto di più. Pensavo tu fossi un ragazzo aperto eri una bisbetica egoista e montata. Mi avrai anche preso a calci ma con quell’esperienza cresciuto.
sono
E allora vaffanculo ci sono ragazzi migliori da adorare. Non sarai tu, comprendez-vous? Non sarai mai tu. tiny non canta queste parole: le urla. è come se gli uscisse dalla bocca una parata. non ho alcun dubbio che le parole viaggino sopra il lago michigan, raggiungano buona parte del canada e poi su fino al polo nord. i contadini del saskatchewan stanno piangendo. babbo natale si è trasformato in mamma natale e dice: che cazzo è questa roba? io sono del tutto mortificato, ma poi tiny apre gli occhi e mi guarda con un interesse così sincero che non ho idea di cosa fare. nessuno prova a darmi qualcosa del
genere da secoli. a parte isaac, che però non esiste. qualsiasi cosa si possa dire di tiny, di sicuro esiste. mi chiede se voglio fare due passi. anche questa volta annuisco confuso. e comunque non ho niente di meglio da fare. io: ma tu chi sei? tiny: tiny cooper! io: tiny non può essere il tuo vero nome. tiny: no. è ironico. io: oh. tiny (con aria di superiorità): lascia perdere gli oh con me. non c’è problema. ho le ossa grosse. io: e non solo le ossa, amico.
tiny: be’, questo vuol dire soltanto che c’è più me da amare. io: deve essere una bella fatica. tiny: tesoro, ne vale la pena. la cosa strana è che devo ammettere che in lui c’è qualcosa di un po’ attraente. non capisco. è come una specie di neonato sexy. no, un momento, così sembra proprio una stronzata. non è questo che volevo dire, ma è tipo che pur essendo grande come una casa (e non sto parlando della casa di un poveraccio) ha questa pelle liscissima e questi occhioni verdi e tutto quanto è proporzionato, così non provo la repulsione che mi aspetterei di provare nei confronti di uno grosso tre volte me.
vorrei dirgli che adesso dovrei essere in giro ad ammazzare qualcuno, non a passeggiare con lui. però tiny mi fa pensare un po’ di meno agli omicidi che vorrei compiere. tanto ci sarà tempo anche dopo. mentre ci avviciniamo al millennium park tiny mi parla di tiny dancer e di quanto si è dato da fare per scrivere, interpretare, dirigere, produrre, coreografare, disegnare i costumi, disegnare le luci, disegnare le scenografie e procurarsi i finanziamenti. fondamentalmente è pazzo e dato che sto impazzendo anch’io non posso fare a meno di seguirlo. come con maura (maledetta stronza puttana fascista nazista di merda). io non dico una
parola. il che mi sta bene. quando arriviamo al parco, tiny va dritto verso il fagiolo. chissà perché non mi stupisce. il fagiolo è questa stupidissima scultura che hanno fatto per il millennium park - credo tipo nel 2000 che in origine aveva un altro nome ma che tutti hanno iniziato a chiamare fagiolo e fagiolo è rimasto. di base è un grosso fagiolo di metallo lucido: tu ci puoi passare sotto e ti vedi tutto distorto. sono già stato qui in gita scolastica, ma mai con uno grosso come tiny. di solito all’inizio è difficile vedersi nel riflesso, ma questa volta so di essere il ramoscello smilzo accanto al grande blob umano. tiny ridacchia quando si
vede riflesso in quel modo. una risatina vera e propria, tipo hi hi hi. odio quando lo fanno le ragazze, perché suona sempre falso. ma con tiny non è falso per niente. è come se la vita gli facesse il solletico. dopo che tiny ha provato una posa da ballerina, una posa da giocatore di golf, una posa tipo pump-up-the-jam e una posa tipo in-cima-alla-montagna-tuttiinsieme-appassionatamente nel riflesso del fagiolo, ci porta a una panchina che dà su lake shore drive. dovrebbe essere sudato perché, diciamoci la verità, la maggior parte della gente grassa suda anche solo a portarsi un cioccolatino alla bocca, ma tiny è troppo favoloso per sudare.
tiny: allora, racconta a tiny i tuoi problemi. io non posso rispondere, perché per come l’ha detto si potrebbe sostituire la parola “mamma” alla parola “tiny” e la frase suonerebbe identica. io: tiny potrebbe parlare come una persona normale? tiny (nella sua migliore voce da anderson cooper): sì, potrebbe, ma non sarebbe altrettanto divertente. io: è che sembri così gay. tiny: be’, si dà il caso che io sia gay... io: sì... ma... non lo so... non mi piacciono i gay. tiny: ma di sicuro tu ti piaci, no?
porca puttana, voglio essere dello stesso pianeta di questo ragazzo. sta scherzando? lo guardo e vedo che sì, sta scherzando. io: perché dovrei piacermi? non piaccio a nessuno. tiny: a me sì. io: non mi conosci per niente. tiny: però vorrei conoscerti. è una cosa così stupida all’improvviso mi metto a urlare.
che
io: stai zitto! stai zitto e basta! e lui sembra ferito, per cui devo dire io: no... ah... non è colpa tua. va bene?
tu sei gentile. io no. io non sono gentile. va bene? piantala! perché adesso non sembra più ferito. sembra triste. triste per me. lui mi vede per davvero, cazzo. io: tutto questo è molto stupido. è come se sapesse che se mi toccasse io probabilmente andrei fuori di testa e inizierei a tempestarlo di pugni e a piangere e non vorrei vederlo mai più. e allora se ne resta lì seduto mentre io mi prendo la testa tra le mani, come se stessi letteralmente cercando di tenere insieme i miei pensieri. e il fatto è che non ha bisogno di toccarmi, perché uno come tiny cooper se ti sta vicino lo sai e
basta. tutto ciò che deve fare è stare lì, e tu sai che c’è. io: merda merda merda merda merda merda. ed ecco la cosa malata: una parte di me pensa che me lo merito. che forse se non fossi un tale stronzo isaac sarebbe stato reale. se non fossi uno schifo di persona, mi potrebbe succedere qualcosa di bello. non è giusto, perché non ho chiesto io a papà di andarsene e non ho chiesto io di essere depresso e non ho chiesto io di non avere soldi e non ho chiesto io di voler scopare con gli altri ragazzi e non ho chiesto io di essere così stupido e non ho chiesto io di non avere veri amici e non ho chiesto
io di farmi uscire dalla bocca tutte le stronzate che ne vengono fuori. tutto quello che volevo era un momento di pausa, una cosa bella, ma chiaramente era chiedere troppo, volere troppo. cazzo. non capisco perché questo ragazzo che scrive dei musical su se stesso sta qui seduto con me. sono così patetico? si aspetta una medaglia al merito per avere raccolto i pezzi di un essere umano distrutto? mi lascio andare la testa. tanto non serve a niente. quando torno in superficie guardo tiny, ed è strano. non mi sta solo guardando: mi sta vedendo. tiny: io non bacio mai al primo
appuntamento. lo guardo senza capire. e poi aggiunge tiny: ...ma un’eccezione.
a
volte
faccio
per cui adesso il mio shock di prima si sta trasformando in un tipo di shock diverso, ed è uno shock a 10.000 volt perché, anche se è enorme e anche se non mi conosce per niente e anche se sulla panchina occupa più o meno il triplo dello spazio che occupo io, in questo momento tiny cooper è sorprendentemente e innegabilmente attraente. sì, la sua pelle è liscia. il suo sorriso è gentile. e soprattutto i suoi occhi... i suoi occhi hanno questa folle
speranza e questo folle desiderio e questo ridicolo stordimento e, anche se penso che sia una cosa stupidissima e anche se non proverò mai quello che prova lui, direi proprio che non mi dispiace l’idea di baciarlo e vedere cosa succede. sta iniziando ad arrossire per quello che ha detto e in effetti è troppo timido per chinarsi su di me, per cui mi ritrovo a sollevarmi per baciarlo, e tengo gli occhi aperti perché voglio vedere la sua sorpresa e vedere la sua felicità perché non c’è modo che io veda e senta la mia. non è come baciare un divano. è come baciare un ragazzo. finalmente, un ragazzo. lui chiude gli occhi. e sorride quando
ci fermiamo. tiny: non è decisamente quello che mi aspettavo da questa serata. io: dillo a me. vorrei scappare via. non con lui. è solo che non voglio tornare alla mia vita e alla mia scuola. se non ci fosse mamma ad aspettarmi probabilmente lo farei. vorrei scappare via perché ho perso tutto. sono sicuro che se lo dicessi a tiny cooper lui mi farebbe notare che ho perso anche le cose brutte, oltre a quelle buone, e mi direbbe che domani il sole sorgerà ancora e stronzate del genere, ma io non gli crederei. non credo a nessuna di queste cose.
tiny: ehi... non so neanche come ti chiami. io: will grayson. al che tiny salta su dalla panchina e mi fa quasi cadere a terra. tiny: no! io: mmm... sì? tiny: che storia! scoppia a ridere e inizia a urlare tiny: ho baciato will grayson! ho baciato will grayson! quando si accorge che questa cosa mi fa sclerare di brutto torna a sedersi e dice
tiny: sono contento che fossi tu. penso all’altro will grayson e mi chiedo cosa stia facendo con jane. io: non è che io sia uno da seventeen, giusto? gli occhi di tiny si illuminano. tiny: te lo ha detto lui? io: già. tiny: è stata una vera e propria truffa. ero arrabbiatissimo. ho scritto una lettera al direttore, ma non l’hanno pubblicata. provo una fitta di gelosia all’idea che a.w.g. abbia un amico come tiny. non
riesco a immaginare che qualcuno possa scrivere una lettera al direttore per me. non riesco neanche a immaginare che qualcuno faccia lo sforzo di scrivere il mio necrologio. penso a tutto quello che è successo e al fatto che quando tornerò a casa non avrò nessuno a cui raccontarlo. poi guardo tiny e lo bacio di nuovo, stupendo anche me stesso. e che cazzo! cioè, davvero, e che cazzo! andiamo avanti per un po’ e baciare uno così grosso mi sta ingrossando di brutto. e tra una limonata e l’altra lui mi chiede dove abito, cosa è successo questa sera, cosa voglio fare della mia vita, qual è il mio gusto di gelato preferito. io rispondo alle domande a
cui posso rispondere (fondamentalmente dove abito e il gusto di gelato) e gli dico che per quanto riguarda il resto non ne ho la minima idea. non c’è nessuno che ci guarda, ma inizio ad avere la sensazione che lo facciano. così ci fermiamo e io non posso fare a meno di pensare a isaac e al fatto che anche se tutta questa storia di tiny è uno sviluppo interessante mi sento ancora come se un tornado mi avesse distrutto la casa. tiny è l’unica stanza rimasta in piedi. sento di essere in debito con lui per questo, per cui dico io: sono contento che esisti. tiny: al momento anch’io contento di esistere.
sono
io: non hai idea di quanto ti sbagli su di me. tiny: e tu non hai idea di quanto ti sbagli su di te. io: smettila. tiny: prima tu. io: uomo avvisato... non ho idea di cosa c’entri la verità con l’amore e viceversa. non sto nemmeno pensando in termini di amore, in questo momento. è decisamente troppo presto. ma direi che sto pensando in termini di verità. voglio che questa cosa sia vera. e nonostante quello che dico a tiny e a me stesso, la verità è sempre più chiara. è ora che scopriamo come diavolo
potrà mai funzionare questa cosa.
capitolo undici Sono seduto contro il mio armadietto dieci minuti prima che inizi la prima ora quando Tiny arriva di corsa, le braccia piene di poster per i provini di Tiny Dancer. «Grayson!» urla. «Ciao» rispondo io. Mi alzo, gli prendo un poster e lo appoggio al muro. Lui lascia cadere a terra gli altri e inizia ad attaccarlo strappando lo scotch con i denti. Poi raccogliamo quelli che ha fatto cadere, ci allontaniamo di qualche passo e ricominciamo. E per tutto il
tempo lui continua a parlare. Il suo cuore batte e le sue palpebre si aprono e si chiudono e i suoi polmoni respirano e i suoi reni processano tossine e lui parla e tutto questo è totalmente indipendente dalla sua volontà. «Scusa se non sono tornato da Frenchy’s ma ho pensato che avresti immaginato che avevo preso un taxi, come in effetti ho fatto, e comunque io e Will siamo andati a piedi fino al Fagiolo e... cioè... Grayson... lo so che l’ho già detto altre volte, però lui mi piace davvero. Cioè... ti deve davvero piacere un ragazzo per andare con lui fino al Fagiolo e ascoltarlo parlare del suo ragazzo che alla fine non era neanche un ragazzo e poi gli ho anche cantato una
canzone. E, Grayson, cioè, davvero: ci puoi credere che ho baciato Will Grayson? Io. Ho. Baciato. Will. Grayson. Cioè, niente di personale, te l’ho detto un fantastiliardo di volte, io penso che tu sia un figo pazzesco ma avrei scommesso la mia palla sinistra che non avrei mai limonato con Will Grayson.» «Uh uh...» dico io, ma lui non aspetta nemmeno che abbia finito il primo uh per ricominciare a parlare. «E mi manda un sms tipo ogni quarantadue secondi e sono dei messaggini fighissimi, il che è strabello perché mi arriva questa piccola vibrazione alla gamba ed è come un promemoria che lui... ecco, me n’è
arrivato uno.» Continuo a reggere un poster mentre lui tira fuori il cellulare dai jeans. «Auu!» «Cosa dice?» chiedo. «Riservato. Penso che si fidi del fatto che io non blateri con tutti dei suoi sms, capisci?» Potrei sottolineare la follia di qualcuno che si fida di Tiny per una cosa del genere, ma non lo faccio. Lui attacca il poster al muro e inizia a camminare per il corridoio. Lo seguo. «Be’, sono contento che la tua serata sia andata bene. Nel frattempo io sono stato colto alle spalle dalla notizia dell’ex ragazzo pallanuotista di Jane...» «Be’, tanto per cominciare» mi interrompe lui «cosa te ne frega? A te
non piace Jane. E poi non lo definirei un ragazzo. Quello è un uomo. È un pezzo di manzo scolpito come una statua greca.» «Non mi sei di grande aiuto.» «Sto solo dicendo... non è il mio tipo, ma è uno spettacolo da guardare. E che occhi! Come zaffiri che ti illuminano gli angoli più bui del cuore. E in ogni caso non sapevo che stessero insieme. Pensavo che fosse soltanto un figone che ci provava con lei. Jane non mi parla mai di ragazzi. Non so perché: sono affidabilissimo su quel genere di cose.» Nella sua voce c’è abbastanza sarcasmo perché io possa scoppiare a ridere. Tiny continua a parlare sopra la mia risata. «È incredibile quello che non si sa sulle
persone, vero? Ci ho pensato per tutto il fine settimana parlando con Will. Lui si è innamorato di Isaac, che alla fine si è scoperto che non esisteva. Sembra una cosa che succede solo in rete, ma in effetti succede spessissimo anche nella vita reale.» «Be’, non è vero che Isaac non esisteva. È solo che era una ragazza. Cioè, quella Maura è Isaac.» «No che non lo è» taglia corto lui. Sto reggendo l’ultimo poster contro la porta del bagno dei maschi. Dice: SEI FAVOLOSO? ALLORA VEDIAMOCI OGGI ALLA NONA ORA ALL’AUDITORIUM. Tiny finisce di attaccarlo e andiamo verso l’aula di algebra. I corridoi stanno iniziando a
riempirsi di gente. Il casino con i nomi di Maura/Isaac mi ricorda una cosa. «Tiny» dico. «Grayson» risponde lui. «Mi faresti il favore di cambiare il nome del coprotagonista del tuo spettacolo?» «Gil Wrayson?» Annuisco. Tiny solleva le mani in aria e annuncia: «Non posso cambiare il nome di Gil Wrayson! È fondamentale per tutto lo spettacolo». «Non sono dell’umore giusto per le tue stronzate» dico io. «Non sono stronzate. Si deve chiamare per forza Wrayson. Prova a dirlo lentamente. Suona come Rays-In, giusto? Ovvero raggi dentro. Perché Gil Wrayson sta subendo una
trasformazione. E deve lasciare entrare dentro i raggi del sole - sotto forma di canzoni cantate da Tiny - per diventare il suo vero se stesso. Non sarà più una prugna, ma un chicco di uvetta addolcito dal sole. Non capisci?» «Ma dai, Tiny. Se è davvero così, allora perché diavolo si chiama Gil?» Tiny sta zitto per un istante. «Mmm» dice poi guardandosi in giro. «È solo che mi è sempre sembrato il nome giusto per lui. Ma credo che potrei cambiarlo. Ci penserò sopra, va bene?» «Grazie» gli dico. «Di niente. E adesso smettila di fare la fighetta.» «Cosa?» Raggiungiamo i nostri armadietti e
anche se gli altri lo possono sentire lui parla ad alta voce come sempre. «Uè, uè, io non piaccio a Jane anche se lei non piace a me. Uè, uè, Tiny ha dato il mio nome a un personaggio del suo spettacolo. C’è gente al mondo che ha dei problemi veri, lo sai? Cerca di vedere le cose nella giusta prospettiva.» «TU dici a ME di vedere le cose nella giusta prospettiva? Ma cazzo, Tiny. Volevo soltanto sapere se aveva un ragazzo.» Tiny chiude gli occhi e prende un bel respiro, come se fossi io quello irritante. «Come ho già detto, non sapevo nemmeno che lui esistesse, va bene? Ma poi l’ho visto che parlava con lei e ho capito che Jane gli piaceva. E quando se
n’è andato sono andato da lei e le ho chiesto chi era e lei mi ha detto una roba del tipo: “Il mio ex” e io ho fatto: “Il tuo ex? Devi ripigliartelo subito, quel figone!”» Sto fissando il profilo immenso di Tiny Cooper. Lui sta guardando dentro il suo armadietto. Sembra vagamente annoiato, ma poi le sue sopracciglia schizzano verso l’alto e per un secondo penso che abbia capito quanto mi faccia incazzare quello che ha appena detto, ma poi infila una mano nei jeans e tira fuori il cellulare. «Dimmi che non lo hai fatto» dico io. «Scusa, lo so che non dovrei leggere gli sms mentre parliamo, ma al momento non riesco proprio a farne a meno.»
«Non sto parlando dei tuoi sms, Tiny. Dimmi che non hai detto a Jane di rimettersi con quel tizio.» «Be’, certo che sì, Grayson» dice lui senza staccare lo sguardo dal telefono. E poi risponde a Will mentre parla. «Era favoloso e tu mi avevi detto che Jane non ti piaceva. Adesso invece ti piace? Tipico dei ragazzi... ti interessa solo quando non le interessi tu.» Vorrei tirargli un pugno in un rene perché si sbaglia e anche perché ha ragione. Ma farei male solo a me stesso. Sono soltanto un personaggio secondario nella storia di Tiny Cooper e non ci posso fare niente di niente a parte farmi prendere per il culo fino a quando non finiremo il liceo e potrò finalmente
sfuggire dalla sua orbita e smettere di essere una luna del suo grasso pianeta. E poi mi viene in mente una cosa che potrei fare. Ho un’arma a disposizione. Regola 2: stai zitto. Gli passo davanti e vado verso l’aula. «Grayson» dice lui. Non gli rispondo. Ad algebra non dico niente quando Tiny riesce miracolosamente a infilarsi dentro il suo banco. E poi non dico niente quando mi dice che al momento non sono nemmeno il suo Will Grayson preferito. Non dico niente quando mi dice di avere mandato quarantacinque sms all’altro Will Grayson nelle ultime ventiquattro ore (anche se penso che
siano decisamente troppi). Non dico niente quando mi piazza il cellulare sotto al naso e mi fa vedere degli sms di Will Grayson che dovrei trovare adorabili. Non dico niente quando mi chiede perché diavolo non dico niente. Non dico niente quando mi dice: «Grayson, è che mi stavi dando sui nervi e ho detto tutte quelle cose per farti stare zitto. Ma non avevo intenzione di farti stare così tanto zitto». Non dico niente quando dice: «No, davvero, di’ qualcosa» e non dico niente quando dice sottovoce, ma comunque abbastanza forte perché lo sentano tutti: «Davvero, Grayson, mi dispiace, va bene? Mi dispiace». E a quel punto per fortuna inizia la
lezione. Cinquanta minuti dopo suona la campanella e Tiny mi segue in corridoio come un’ombra abnorme e dice: «Davvero, dai, tutto questo è ridicolo». Non è che abbia veramente voglia di torturarlo ancora. Mi sto semplicemente godendo il lusso di non dover ascoltare la debolezza e l’impotenza della mia stessa voce. A pranzo mi siedo da solo in fondo a un lungo tavolo dove ci sono diversi membri del mio ex Gruppo di Amici. Alton dice: «Come butta, frocione?» e io dico: «Niente male» e poi Cole dice: «Vieni alla festa da Clint? Sarà uno sballo», il che mi fa pensare che a questi
tizi in fin dei conti non dispiaccio, anche se uno di loro mi ha appena dato del frocione. A quanto pare avere come migliore-e-unico amico Tiny Cooper non ti prepara al meglio alle complessità della socializzazione maschile. Dico: «Sì, cercherò di passare» anche se non so quando sarà la festa. Poi un tizio con la testa rasata di nome Ethan dice: «Ehi, tu le fai le audizioni per lo spettacolo ricchione di Tiny?». «Col cavolo» dico io. «Io penso che ci proverò» dice lui, e mi ci vuole un secondo per cercare di capire se sta scherzando. Scoppiano tutti a ridere e iniziano a parlare tutti insieme. Ognuno cerca di piazzare il primo insulto, ma Ethan li liquida con
una risata e dice: «Alle ragazze piacciono gli uomini sensibili». Poi si volta e urla verso il tavolo alle sue spalle, dove è seduta la sua ragazza, Anita: «Piccola, vero che sono sexy quando canto?». «Di brutto» dice lei. Al che lui ci guarda soddisfatto. I ragazzi però continuano a dargli addosso. Io non dico quasi una parola, ma alla fine del mio panino prosciutto e formaggio mi metto a ridere alle loro battute nei momenti giusti, il che credo che tecnicamente voglia dire che sto pranzando con loro. Tiny mi trova mentre sto mettendo a posto il vassoio e con lui c’è Jane e camminano insieme a me. All’inizio non parla nessuno. Jane porta una felpa
verde militare con il cappuccio tirato su. Ha un’aria quasi ingiustamente adorabile, come se avesse scelto di essere così carina solo per prendermi in giro. Dice: «Sei di ottimo umore oggi, Grayson. Tiny mi ha detto che hai fatto il voto del silenzio». Annuisco. «Perché?» chiede lei. «Oggi parlo solo con le ragazze carine» rispondo con un sorriso. Tiny ha ragione: l’esistenza del pallanuotista mi rende più facile flirtare con lei. Jane sorride. «Direi che Tiny è una ragazza abbastanza carina.» « Ma perché?» implora Tiny mentre svolto in un corridoio. Quel labirinto di corridoi identici, differenziati solo dai
diversi murali dei Mici Selvatici, una volta mi spaventava a morte. Dio, quanto sarebbe bello tornare a quando la mia paura più grande era un corridoio. «Grayson, ti prego. Mi stai UCCIDENDO.» Mi rendo conto che, per la prima volta da quando ricordi, Tiny e Jane mi stanno seguendo. Tiny decide di ignorarmi e dice a Jane che spera un giorno di accumulare abbastanza sms di Will Grayson da farne un libro, perché tutti i suoi messaggini sono delle poesie. Prima di rendermene conto dico: «Con la differenza che Ti dovrei dunque comparare a una giornata d’estate? Tu sei ben più leggiadro e temperato
d i v e nta 6 caldo come 1 giornata d’agosto, tvtb». «Ha parlato!» urla Tiny abbracciandomi. «Sapevo che saresti tornato tra noi! Sono così felice che cambierò il nome di Gil Wrayson! D’ora in poi diventerà Phil Wrayson! Sei contento?» Annuisco. La gente penserà ancora che sia io, ma almeno... be’, almeno sta facendo finta di provarci. «Oh, un sms!» Tiny tira fuori il cellulare, legge il messaggio, sospira forte e inizia a digitare una risposta con le sue manone. Mentre digita io dico: «Però scelgo io chi lo interpreterà». Tiny annuisce distrattamente. «Tiny,» ripeto «scelgo io chi lo interpreterà».
Lui solleva lo sguardo. «Cosa? No no no. Sono io il regista. E anche l’autore, il produttore, l’assistente ai costumi e il direttore del casting.» E Jane dice: «Ti ho visto annuire, Tiny. Hai già detto di sì». Lui scrolla le spalle e a quel punto siamo arrivati al mio armadietto e Jane mi prende per un gomito e mi allontana da Tiny e dice sottovoce: «Lo sai che non puoi dirle quelle cose, vero?». «Di cosa stai parlando?» chiedo sorridendo. «Non fare il furbo, Grayson. Non puoi e basta.» «Ma cosa?» «Darmi della ragazza carina e roba del genere.»
«Perché no?» «Perché sto ancora svolgendo le mie ricerche sui rapporti tra la pallanuoto e le epifanie.» Cerca di fare un sorrisetto. «Vuoi venire con me a vedere le audizioni di Tiny Dancer?» le chiedo. Tiny sta ancora digitando a cento all’ora. «Grayson, non posso... cioè... sono tipo impegnata, capisci?» «Non ti sto chiedendo un appuntamento, ti sto chiedendo di andare insieme a un’attività scolastica. Ci sediamo in fondo all’auditorium e prendiamo in giro i ragazzi che fanno il provino per interpretare me.» L’ultima volta che ho letto il testo di
Tiny è stata l’estate scorsa, ma per quanto ricordi ci sono più o meno nove ruoli importanti: Tiny, sua mamma (che ha un duetto con Tiny), Phil Wrayson, Kaleb e Barry (due ragazzi che piacciono a Tiny) e poi la coppia etero inventata che fa in modo che il personaggio di Tiny creda in se stesso e roba del genere. E poi c’è il coro. In tutto Tiny ha bisogno di trenta attori. Immagino che all’audizione ci sarà al massimo una dozzina di persone. Ma quando arrivo all’auditorium dopo l’ora di chimica ci sono già almeno cinquanta persone che bivaccano tra il palco e le prime file aspettando l’inizio delle audizioni. Gary sta correndo in giro per dare a tutti quanti
delle spille da balia e dei foglietti di carta con sopra dei numeri scritti a mano che gli aspiranti attori si devono attaccare addosso. E, trattandosi di appassionati di teatro, stanno tutti parlando. Tutti. Contemporaneamente. Non c’è bisogno che qualcuno li senta: a loro basta parlare. Mi siedo nell’ultima fila, a un posto di distanza dal corridoio in modo che ci si possa sedere Jane. Lei arriva subito dopo di me e mi si siede accanto, si guarda attorno per un secondo e poi dice: «Laggiù, da qualche parte, Grayson, c’è qualcuno che dovrà guardare dentro la tua anima per poterti incarnare al meglio». Sto per risponderle quando l’ombra
di Tiny passa sopra di noi. Si inginocchia lì accanto e porge un blocco a ciascuno dei due. «Per favore, scrivete qualcosa su tutti quelli che vi sembrano adatti al ruolo di Phil. Sto anche pensando di inserire un nuovo personaggio secondario di nome Janey.» Dopodiché avanza a passo di marcia lungo il corridoio. «Gente!» urla. «Sedetevi, per favore.» Tutti quanti sgambettano nelle prime file mentre Tiny si issa sul palco. «Non abbiamo molto tempo» dice con una voce stranamente impostata. Sta parlando come pensa parli la gente di teatro, credo. «Prima di tutto devo capire se sapete cantare. Un minuto di una canzone per ognuno di voi. Se venite richiamati, reciterete qualche
battuta del copione. Potete scegliere la vostra canzone, ma sappiate questo: Tiny. Cooper. Odia. Over. The. Rainbow.» Salta giù dal palco con un gesto teatrale e urla: «Numero 1, fammi innamorare di te.» La Numero 1, una bionda un po’ topesca che si identifica come Marie F., sale le scale laterali del palco e ciondola fino al microfono. Da sotto i boccoli biondi solleva lo sguardo sull’auditorium, dove campeggia uno striscione che dice I MICI SELVATICI SPACCANO e si impegna al massimo per dimostrare il contrario con una versione incredibilmente pessima di un lento di Kelly Clarkson.
«Oh mio dio» dice Jane sottovoce. «Oddio. Fai che finisca presto.» «Non so di cosa tu stia parlando» borbotto io. «Questa ragazza è perfetta per la parte di Janey. È stonata, le piace il pop melenso ed esce con gli strillacagne.» Lei mi tira una gomitata. Il Numero 2 è un ragazzo che sembra un husky, con i capelli troppo lunghi per essere considerati normali e troppo corti per essere considerati lunghi. Canta una canzone di una band che a quanto pare si chiama Damn Yankees (Jane ovviamente li conosce). Non so come sia l’originale, ma la versione a cappella tipo scimmia urlatrice di questo tizio lascia parecchio a desiderare. «Sembra che lo abbiano appena preso a calci nelle palle» dice
Jane, al che rispondo: «Se non la smette in fretta, qualcuno lo farà di sicuro». Quando arriviamo al Numero 5 sono al punto che spero in una versione mediocre di qualcosa di inoffensivo come Over the Rainbow, e sospetto che sia lo stesso anche per Tiny, almeno a giudicare da come il suo pimpante «Fantastico! Ti faremo sapere» si è trasformato in un depresso «Grazie. Il prossimo». Le canzoni vanno dagli standard jazz alle cover delle boy-band, ma tutti gli interpreti hanno una cosa in comune: fanno abbastanza cagare. Cioè, non tutti quanti fanno cagare allo stesso modo e certi fanno cagare meno di altri, ma tutti fanno cagare almeno un po’. Resto di
stucco quando il mio compagno di mensa Ethan, il Numero 19, si rivela il cantante migliore fino a questo momento con una canzone tratta da un musical intitolato Spring Awakening. Il tipo canta di brutto. «Potrebbe fare la tua parte» dice Jane. «Se si facesse crescere i capelli e diventasse antipatico.» «Io non sono antipatico...» «...è il genere di cosa che dicono le persone antipatiche.» Jane sorride. Nell’ora successiva vedo un paio di potenziali Jane. La Numero 23 canta una versione strana e dolciastra ma bella di una canzone di Bulli e pupe. L’altra ragazza, la Numero 43, ha i capelli
biondi e lisci con delle ciocche blu e canta Nella vecchia fattoria. Qualcosa nella distanza tra le canzoni per bambini e i capelli blu mi fa pensare a Jane. «Io voto per lei» dice Jane appena la ragazza arriva al secondo ia-ia-o. L’ultima aspirante attrice è una creaturina dagli occhi enormi di nome Hazel che canta una canzone da Rent. Dopo che ha finito Tiny corre sul palco per ringraziare tutti e dire che sono stati favolosi e che sarà difficilissimo scegliere e che i nomi dei finalisti saranno esposti dopodomani. Tutti quanti ci passano davanti per uscire e alla fine Tiny caracolla fino alla nostra fila. «Un bel disastro» gli dico.
Lui risponde con un gesto teatrale. «Non abbiamo visto molte future stelle di Broadway» ammette. Gary ci raggiunge e dice: «A me sono piaciuti i numeri 6, 19, 31 e 41. Gli altri, be’...» e poi Gary si porta una mano al petto e inizia a cantare: «Somewhere over the rainbow, way up high / Il canto dei Mici Selvatici, mi fa urlare ahi ahi!». «Cavoli» dico io. «Ma tu sei un vero cantante. Sembri Pavarotti.» «Sì, a parte il fatto che lui era un baritono» dice Jane. A quanto pare il suo snobismo musicale si estende anche al mondo dell’opera. Tiny schiocca le dita con una mano e indica Gary con l’altra: «Tu! Tu! Tu!
Per la parte di Kaleb. Congratulazioni». «Vuoi che interpreti una versione romanzata del mio ex ragazzo?» chiede Gary. «Non credo proprio.» «E allora Phil Wrayson. Non mi interessa. Scegliti tu un ruolo. Mio Dio, canti meglio di tutti loro.» «Sì!» dico io. «Ti voglio per il mio ruolo.» «Ma dovrei baciare una ragazza» dice lui. «Bleah.» Non ricordo che il mio personaggi baci una qualche ragazza e sto per chiederlo a Tiny, ma lui mi interrompe dicendo: «Ho riscritto qualche battuta». Tiny adula ancora un po’ Gary, che alla fine accetta di interpretare il mio ruolo, cosa di cui sono francamente contento. Mentre
risaliamo il corridoio centrale dell’auditorium, Gary si volta verso di me, inclina un po’ il capo e strizza gli occhi. «Com’è essere Will Grayson? Devo sapere com’è essere dentro di te.» Scoppia a ridere, ma sembra anche aspettare una risposta. Io ho sempre pensato che essere Will Grayson significasse essere me, ma a quanto pare non è così. Anche l’altro Will Grayson è Will Grayson, e adesso lo sarà anche Gary. «Basta che stai zitto e te ne freghi» dico. «Che parole commoventi.» Gary sorride. «Baserò il tuo personaggio sulle caratteristiche degli scogli del lago: silenzi, apatici e, considerato quanto
poco esercizio fanno, sorprendentemente ben modellati.» Scoppiano tutti a ridere, a parte Tiny che sta scrivendo un messaggino. Mentre usciamo dall’auditorium vedo Ethan appoggiato con lo zainetto in spalla a una bacheca con i trofei dei Mici Selvatici. Mi avvicino e gli dico: «Niente male oggi» e lui sorride e dice: «Spero solo di non essere troppo figo per interpretare la tua parte». Sorride. Anch’io gli sorrido, anche se mi sembra almeno in parte serio. «Ci vediamo venerdì da Clint?» chiede. «Forse sì» dico io. Si sistema lo zainetto su una spalla e se ne va con un cenno del capo. Alle mie spalle sento Tiny implorare melodrammaticamente:
«Qualcuno mi dica che andrà tutto bene!». «Andrà tutto bene» dice Jane. «Gli attori mediocri danno il meglio sui testi migliori.» Tiny prende un bel respiro, si scrolla via dalla mente qualche pensiero e dice: «Hai ragione. Insieme saranno superiori alla somma delle loro parti. Cinquantacinque persone si sono presentate ai provini per il mio spettacolo! Oggi ho dei capelli spettacolari! Ho preso B nel compito in classe di inglese!». Il suo telefono cinguetta. «E ho appena ricevuto un messaggino dal mio nuovo Will Grayson preferito. Hai troppo ragione, Jane: tutto andrà alla grande per Tiny.»
capitolo dodici inizia quando torno a casa da chicago. ho già ventisette sms di tiny sul cellulare e lui ne ha ventisette miei. ho passato la maggior parte del viaggio in treno a leggerli e inviarli. per il resto del tempo ho pensato a cosa dovevo fare quando sarei entrato in casa. perché se la nonesistenza di isaac mi appesantirà le spalle, devo liberarmi di qualche altro peso per non schiantarmi a terra. non me ne frega più un cazzo di niente. cioè, anche prima credevo che non me ne fregasse un cazzo di niente ma era non-
me-ne-frega-un-cazzo-di-niente da dilettanti. quella che provo adesso è una sensazione di non-me-ne-frega-uncazzo-di-niente liberatoria, del tipo che non mi fermerei davanti a niente. mamma mi sta aspettando in cucina. sorseggia un tè e sfoglia una di quelle stupide riviste in cui dei vip si vantano della loro casa. quando entro solleva lo sguardo. mamma: com’è andata a chicago? io: senti, mamma, io sono gay. e apprezzerei se potessi sclerare subito perché abbiamo il resto delle nostre vite per parlarne ma prima superiamo la parte difficile e meglio è. mamma: la parte difficile?
io: sai, tu che preghi per la mia anima e mi maledici perché non ti darò dei nipotini e mi dici quanto sei delusa. mamma: pensi davvero che farei una cosa del genere? io: è un tuo diritto, credo. ma se vuoi saltare questa parte, per me va bene. mamma: credo di volerla saltare. io: davvero? mamma: davvero. io: wow. cioè... figo. mamma: posso almeno concedermi un momento o due di sorpresa? io: come no? cioè, non credo che fosse la risposta che ti aspettavi quando mi hai chiesto com’era andata a chicago. mamma: in effetti no.
la guardo in faccia per capire se si sta trattenendo, ma sembra davvero tranquilla. il che è abbastanza spettacolare, tutto considerato. io: hai intenzione di dirmi che lo hai sempre saputo? mamma: no. però mi chiedevo chi fosse isaac. oh, merda. io: isaac? mi hai spiato anche tu? mamma: no, è solo... io: cosa? mamma: dicevi il suo nome mentre dormivi. non è che ti spiavo, però l’ho sentito. io: wow.
mamma: non essere arrabbiato con me. io: e come potrei arrabbiarmi con te? lo so che è una domanda stupida. ho dimostrato in passato che posso arrabbiarmi con lei per i motivi più incredibili. c’è stata una volta in cui mi sono svegliato nel cuore della notte ed ero sicuro che mia madre avesse installato un allarme antincendio sul soffitto della mia stanza mentre dormivo. così sono entrato all’improvviso in camera sua e ho iniziato a urlare che non si doveva permettere di mettere qualcosa nella mia camera senza dirmelo, e lei si è svegliata e mi ha detto tranquillamente che l’allarme
antincendio era in corridoio e io l’ho letteralmente trascinata fuori dal letto per farglielo vedere e naturalmente non c’era niente sul soffitto della mia camera, me l’ero solo sognato. e lei non mi ha urlato addosso né niente del genere. mi ha soltanto detto di tornare a dormire. e il giorno dopo era a pezzi, ma non ha neanche accennato al fatto che era perché l’avevo svegliata nel cuore della notte. mamma: hai visto isaac a chicago? come faccio a spiegarglielo? cioè, se le dico che sono andato in città per andare in un sexy shop e incontrare un tizio che alla fine si è scoperto che non esisteva, le vincite delle prossime serate
di poker verranno investite in una seduta dal dottor keebler. però lei capisce sempre quando mento, se ci sta davvero attenta. e poi in questo momento non voglio mentire. per cui cambio un po’ la verità. io: sì, l’ho visto. il suo soprannome è tiny. è così che lo chiamo, anche se è grosso. in effetti è molto simpatico. siamo in un territorio assolutamente sconosciuto del rapporto madre-figlio. non solo in questa casa... forse in tutta l’america. io: non preoccuparti. siamo solo andati al millennium park e abbiamo parlato un po’. c’erano anche dei suoi
amici. non resterò incinto. mamma scoppia a ridere. mamma: be’, questo sì che è un sollievo. si alza dal tavolo della cucina e prima che me ne possa rendere conto mi abbraccia. ed è come se per un momento non sapessi cosa fare con le mani e poi mi dico abbracciala anche tu, testa di cazzo. e così lo faccio. e mi aspetto che si metta a piangere, perché uno dei due dovrebbe farlo. invece quando si stacca da me ha gli occhi asciutti. magari un po’ velati, ma l’ho vista quando le cose non andavano bene, quando le cose erano andate in merda, e così sono
sicuro che questa non è una di quelle volte. va tutto bene. mamma: maura ha telefonato un po’ di volte. sembrava sconvolta. io: be’, può andare all’inferno. mamma: will! io: scusa, non volevo dirlo ad alta voce. mamma: cos’è successo? io: non ho voglia di parlarne. ti dirò solo che mi ha fatto molto, molto male e che voglio che non succeda mai più. se chiama, dille che non voglio parlarle mai più. non dirle che non ci sono. non mentire quando sono nell’altra stanza. dille la verità, che è finita e non saremo mai più amici. per favore.
mamma annuisce. non so se è perché è d’accordo o perché sa che non serve a nulla non essere d’accordo quando sono così. tutto considerato ho una mamma molto intelligente. è ora che lei esca dalla stanza. pensavo che sarebbe successo dopo l’abbraccio. ma visto che tentenna, faccio io la prima mossa. io: vado a letto. ci vediamo domani mattina. mamma: will... io: davvero, è stata una lunga giornata. grazie per essere così... cioè... comprensiva. ti devo un favore. uno bello grosso. mamma: non è questione di favori... io: lo so. ma sai cosa voglio dire.
non voglio andare via finché è chiaro che va bene anche per lei. cioè, è il minimo che io possa fare. lei si sporge verso di me e mi bacia sulla fronte. mamma: buonanotte. io: buonanotte. poi torno in camera mia, accendo il computer e mi creo un nuovo account. willupleasebequiet: tiny? bluejeanbaby: eccomi! willupleasebequiet: sei pronto? bluejeanbaby: per cosa? willupleasebequiet: per il futuro willupleasebequiet: perché credo che sia appena iniziato
tiny mi manda un file di una canzone d i tiny dancer. dice che spera che mi ispirerà. io mi infilo gli auricolari e la ascolto mentre vado a scuola la mattina dopo. C’è stato un tempo un po’ meno bello in cui non sapevo mi piacesse il pisello. Ma poi è arrivata un’estate in cui le cose mi si sono svelate. L’ho capito dal momento in cui l’ho visto al teatrino che volevo solo entrargli nel costumino. Joseph Templeton Oglethorpe III era il suo nome
e come un usignolo cantavo lodi alle sue chiome. L’estate gay! Così adorabile e favolosa! L’estate gay! Un’esperienza strepitosa! Mamma e papà non sapevano che mi avrebbero reso così giulivo quando mi hanno mandato al campo teatrale estivo. Potevo scegliere tra tanti amleti certi tenebrosi, altri più faceti. Di incrociare le spade non vedevo l’ora o di essere Ofelia, una vera signora.
C’erano maschioni che mi chiamavano piccina e ragazze che mi insegnavano i loro trucchi da signorina. Joseph mi sussurrava all’orecchio tenerezze e io lo imboccavo con ogni tipo di dolcezze. L’estate gay! Così golosa e trascinante! L’estate gay! Quando ho capito qual era la mia parte! Mamma e papà spendevano bene il loro denaro mentre tutto sull’amore con Rent imparavo.
Tutti quei baci sul palco in bella vista la competizione per le parti da protagonista ci innamoravamo come pazzi con gran dedizione senza distinzione di razza, sesso e religione. L’estate gay! È finita presto ma è durata per sempre! L’estate gay! Ce l’ho ancora nel cuore e nella mente! Joseph e io non durammo fino a settembre
ma non si può spegnere un tizzone ardente. E io non tornerò mai più all’eterosessualità perché adesso ogni giorno (sì, ogni giorno) è l’estate gay! non avendo mai seguito più di tanto i musical non so se sembrano tutti così gay o se è così solo quello di tiny. sospetto che li troverei tutti gayssimi. non ho capito bene come questa canzone dovrebbe ispirarmi a fare qualcosa di diverso dall’iscrivermi a un corso di teatro, il che al momento è probabile quanto che chieda a maura di uscire. ma tiny mi ha detto che ero il primo a
sentirla oltre a sua madre, e questo conta qualcosa. anche se fa schifo. però fa schifo in modo dolce. la canzone riesce addirittura a non farmi pensare alla scuola e a maura per qualche minuto, ma quando ci arrivo me la ritrovo di fronte e vorrei soltanto urlarle addosso tutta la mia rabbia. continuo a camminare, passo davanti al posto dove di solito ci incontriamo, ma questo non sembra fermarla. si lancia all’inseguimento dicendo tutta una serie di cose che potresti trovare scritte dentro un bacio perugina se i bigliettini dei baci perugina parlassero di gente che ha inventato dei ragazzi digitali per altra gente e poi è stata beccata con le mani nel sacco.
maura: mi dispiace, will. non volevo farti del male. era solo un gioco. non avevo capito quanto lo stessi prendendo seriamente. sono una stronza totale, lo so, ma lo facevo solo perché era l’unico modo per parlarti. non ignorarmi, will, parla con me! farò semplicemente finta che lei non esista. perché tutte le altre opzioni mi farebbero espellere e/o arrestare. maura: per favore, will. mi dispiace tantissimo. adesso piange, e non me ne frega niente. le lacrime sono per lei, non per me. è il dolore di cui continuano a parlare tutte le sue poesie. non ha niente a che fare con me. non più.
cerca di passarmi dei bigliettini durante le ore di lezione. io li faccio cadere per terra e ce li lascio. mi manda degli sms e io li cancello senza leggerli. cerca di parlarmi all’inizio della pausa pranzo e io costruisco un muro di silenzio che nessuna tristezza gothic può scalare. maura: va bene. lo capisco che sei arrabbiato. però quando smetterai di esserlo io sarò ancora qui. quando le cose si rompono, non è la rottura in sé che impedisce loro di tornare com’erano prima. è perché si perde un pezzettino e le due parti che restano non si potrebbero incastrare
nemmeno se lo volessero. è la forma nel suo insieme a essere cambiata. non sarò mai più amico di maura. e prima lo capisce, meno sarà fastidiosa questa situazione. quando parlo con simon e derek scopro che ieri hanno stracciato i loro avversari alla gara di matematletica, per cui almeno adesso so che non sono arrabbiati con me perché li ho bidonati. ho ancora il mio posto a tavola assicurato. ci sediamo e mangiamo in silenzio per almeno cinque minuti prima che simon dica qualcosa. simon: allora, com’è andato il tuo grande appuntamento a chicago? io: vuoi saperlo davvero?
simon: sì... se era tanto importante da farti ritirare dalla gara, voglio sapere com’è andata. io: be’, all’inizio lui non esisteva, ma poi invece esisteva ed è andata abbastanza bene. prima, quando ve ne ho parlato, sono stato molto attento a non usare nessun pronome, ma adesso non me ne frega più un cazzo. simon: aspetta un secondo... tu sei gay? io: già. immagino che sia la conclusione corretta. simon: ma è disgustoso! non è esattamente la reazione che mi aspettavo da simon. avrei scommesso su qualcosa di più vicino all’indifferenza.
io: cosa è disgustoso? simon: cioè... che hai messo il tuo coso dove lui... ehm... defeca. io: prima di tutto non ho messo il mio coso da nessuna parte. e poi ti rendi conto, vero, che quando un ragazzo e una ragazza vanno a letto insieme lui mette il suo coso dove lei urina e ha le mestruazioni? simon: oh. non ci avevo mai pensato. io: appunto. simon: però è strano. io: sempre meno che farsi le seghe pensando ai personaggi dei videogiochi. simon: chi te lo ha detto? dà un colpo in testa a derek con la sua forchetta.
simon: glielo hai detto tu? derek: io non gli ho detto niente! io: ci sono arrivato da solo. giuro. simon: lo faccio solo con i personaggi femminili. derek: e qualche stregone! simon: STAI ZITTO! devo ammettere che non pensavo che essere gay sarebbe stato così. per fortuna tiny mi manda un sms più o meno ogni cinque minuti. non so come faccia a non farsi beccare in classe. magari nasconde il cellulare tra i rotoli della pancia o qualcosa del genere. in ogni caso gliene sono grato, perché è difficile odiare troppo la vita quando qualcuno interrompe la tua giornata con
cose del tipo STO PENSANDO GAYSSIMI PENSIERI SU DI TE e VOGLIO FARTI UN MAGLIONE A MANO. CHE COLORE? e CREDO DI AVERE APPENA CANNATO UNA PROVA DI MATE XCHÉ STAVO PENSANDO TROPPO A TE. e COSA FA RIMA CON PROCESSO PER SODOMIA? poi COMPLETA IDIOZIA? poi
CHIAMAMI ZIA? poi BIGOTTA FOLLIA? poi LE CHIAPPE DAI VIA? poi È PER LA SCENA IN CUI MI COMPARE IN SOGNO IL FANTASMA DI OSCAR WILDE. capisco la metà delle cose di cui parla e di solito questa è una cosa che mi fa incazzare da morire, ma con tiny non è così importante. magari un giorno le saprò, quelle cose. e in ogni caso può essere divertente anche esserne all’oscuro. quel ciccione mi sta trasformando in una mammoletta. che
schifo. mi manda anche un sacco di domande su come va, cosa sto facendo, come mi sento e quando mi rivedrà. non posso farci niente... penso che è un po’ come con isaac. solo senza la distanza. questa volta sento di sapere con chi sto parlando. perché ho la sensazione che con tiny quello che vedi è quello che c’è. non si tiene dentro niente. voglio essere come lui. ma senza dover ingrassare di centocinquanta chili. dopo la scuola maura mi raggiunge al mio armadietto. maura: simon mi ha detto che adesso sei ufficialmente gay. mi ha detto che a chicago hai incontrato qualcuno.
non ti devo niente, maura. e di sicuro non ti devo una spiegazione. maura: cosa stai facendo, will? perché gli hai detto una cosa del genere? perché ho incontrato davvero, maura.
qualcuno
maura: parla con me. mai. chiudo l’armadietto e lascio che sia questo gesto a parlare per me. e il suono dei miei passi. e il fatto che non mi guardo indietro mentre me ne vado. vedi, maura, non me ne frega un cazzo.
quella sera io e tiny chattiamo per quattro ore. mamma mi lascia in pace e mi lascia addirittura restare alzato fino a tardi. qualcuno con un profilo falso lascia sulla mia pagina di myspace un commento in cui mi dà del frocio. non credo che sia maura. qualcun altro della scuola deve averlo saputo. quando controllo la posta in arrivo archiviata vedo che la faccia di isaac è stata sostituita da un quadratino grigio con sopra una X rossa. profilo inesistente dice. così mi restano le sue mail, ma lui se n’è andato. il giorno dopo a scuola vedo un po’ di
gente che mi guarda strano e mi chiedo se sarebbe possibile ricostruire il percorso che il pettegolezzo ha fatto da derek o simon all’enorme atleta moccoloso che mi sta guardando male. naturalmente è possibile che l’enorme atleta moccoloso mi abbia sempre guardato male e io me ne renda conto solo adesso. cerco di fregarmene. maura sta tenendo un profilo basso, ma credo sia perché sta progettando il suo prossimo attacco. vorrei dirle che non ne vale la pena. forse la nostra amicizia non era destinata a durare più di un anno. forse le cose che ci hanno fatti trovare - la cupezza, il sarcasmo non erano destinate a tenerci insieme. il
casino è che mi manca isaac e non mi manca lei. anche se so che lei è isaac. nessuna di quelle conversazioni conta più niente. mi dispiace davvero che sia arrivata a un livello di pazzia del genere per costringermi a dirle la verità... sarebbe stato meglio per tutti e due se non fossimo mai stati amici. non cercherò di punirla, non dirò a tutti quello che ha fatto. e non metterò una bomba nel suo armadietto e non le urlerò addosso davanti a tutti. voglio solo che se ne vada. tutto qui. fine. poco prima di pranzo un tizio che si chiama gideon mi becca vicino al mio armadietto. non ci parliamo più di tanto dal settimo anno, quando eravamo vicini
di laboratorio durante l’ora di scienze. poi lui è diventato uno studente modello e io no. mi è sempre piaciuto e ci siamo sempre salutati quando ci incontravamo nei corridoi. lui fa spesso il dj alle feste a cui io non vado mai. gideon: ehi, will. io: ehi. sono abbastanza sicuro che non sia qui per prendermi a mazzate. a tradirlo è la maglietta degli lcd soundsystem. gideon: allora, cioè, ho sentito dire che potresti essere... sai... io: ambidestro? filatelico? omosessuale?
lui sorride. gideon: sì. e, cioè, quando io ho capito di essere gay la cosa più brutta è che nessuno è venuto a dirmi cose tipo vai così. per cui volevo soltanto dirti... io: vai così? arrossisce. gideon: be’, detto così sembra stupido. ma il senso è quello. benvenuto nel club. in questa scuola è un club molto piccolo. io: spero che non ci sia una tessera da pagare. lui si guarda le scarpe.
gideon: be’, no, non è un vero club. se tiny frequentasse questa scuola immagino che ci sarebbe un vero club e lui ne sarebbe il presidente. sorrido. gideon solleva lo sguardo e se ne accorge. gideon: magari se ti va... cioè... tipo di bere un caffè dopo la scuola... ci metto un secondo a realizzare. io: mi stai chiedendo di uscire? gideon: mmm... forse? proprio lì in corridoio. con tutta questa gente attorno. incredibile.
io: il fatto è che mi piacerebbe uscire con te, ma... ho un ragazzo. queste parole escono veramente dalle mie labbra. in-cre-di-bi-le. gideon: oh. tiro fuori il cellulare e gli faccio vedere l’elenco di tutti i messaggini di tiny. io: giuro, non me lo sto inventando per evitare di uscire con te. si chiama tiny. va a scuola a evanston. gideon: sei proprio fortunato. non è una cosa che mi sento dire
spesso. io: perché non ti siedi con me e simon e derek a pranzo? gideon: sono gay anche loro? io: solo se sei uno stregone. un minuto dopo mando un sms a tiny. TROVATO PRIMO AMICO GAY. e lui mi risponde PROGRESSI!!! e poi DOVRESTI FONDARE UNA SEDE DELLA GSA!
al che rispondo UN PASSO RAGAZZONE
ALLA
VOLTA,
e lui risponde RAGAZZONE... MI PIACE! i messaggini continuano per il resto della giornata e fino a sera. in effetti è abbastanza incredibile quanto spesso si possa scrivere a qualcuno se si è costretti a usare pochi caratteri alla volta. è stupido, perché è come se avessi la sensazione che tiny stia condividendo la giornata con me. come se fosse lì mentre ignoro maura o parlo con gideon o scopro che nessuno mi ucciderà a
colpi di ascia a ginnastica perché mando delle vibrazioni omosessuali. ma non basta lo stesso, perché certe volte mi sono sentito così anche con isaac. e non permetterò che questa relazione sia tutta dentro la mia testa. così quella sera chiamo tiny al telefono e gli parlo. gli dico che voglio che venga a trovarmi. e lui non cerca delle scuse. non dice che non è possibile. dice tiny: quando posso venire? devo ammettere che qui il mio nonme-ne-frega-un-cazzo-di-niente comincia a cedere un po’. quando dici che non ti interessa se anche il mondo dovesse crollare, in qualche modo stai
anche dicendo che a modo tuo vuoi che non crolli. quando chiudo la telefonata con tiny, mamma entra nella mia stanza. mamma: come va? io: abbastanza bene. e per una volta è vero.
capitolo tredici Mi sveglio al suono della sveglia che squilla ritmicamente, forte come un allarme antiaereo, e mi urla addosso con una ferocia tale da ferire i miei sentimenti. Mi rigiro nel letto e sbircio nel buio: sono le 5:43 del mattino. La mia sveglia è puntata alle 6:37. E a quel punto capisco: non è il suono della mia sveglia. È il clacson di un’auto che lacera le strade di Evanston, un ululato che annuncia il giorno del giudizio. I clacson non suonano a quest’ora. Non con questa
insistenza. Deve essere un’emergenza. Salto fuori dal letto, infilo un paio di jeans e schizzo verso la porta d’ingresso. Sono sollevato nel vedere che mamma e papà sono vivi e stanno correndo anche loro verso la porta di casa. Dico: «Cavoli, ma cosa succede?» e mia mamma scrolla le spalle e mio papà dice: «È un clacson?». Raggiungo la porta per primo e sbircio fuori dalla finestrella di vetro. Tiny Cooper ha parcheggiato davanti a casa mia e strombazza metodicamente a ritmo. Corro fuori e solo quando mi vede smette di suonare il clacson. Si abbassa il finestrino del passeggero. «Cazzo, Tiny. Sveglierai tutto il quartiere.»
Vedo una lattina di Red Bull danzare nella sua manona tremante. L’altra mano resta appiccicata al clacson, pronta a suonare in qualsiasi momento. «Dobbiamo andare» dice a cento all’ora. «Dobbiamo andare andare andare andare.» «Cosa c’è che non va?» «Dobbiamo andare a scuola. Ti spiego dopo. Sali.» Sembra così istericamente serio e io sono così stanco che non penso nemmeno di discutere. Corro in casa, mi infilo calze e scarpe, mi lavo i denti, dico ai miei che vado a scuola presto e schizzo dentro l’auto di Tiny. «Cinque cose, Grayson» dice lui mentre ingrana la marcia e parte senza
mollare la presa sulla lattina di Red Bull. «Cosa? Tiny, cosa c’è che non va?» «Non c’è niente che non va. Va tutto bene. Non potrebbe andare meglio. Io potrei essere meno stanco, meno incasinato e meno incaffeinato, ma le cose non potrebbero andare meglio.» «Ti sei fatto di anfetamine?» «No, mi sono fatto di Red Bull.» Mi passa la lattina e io la annuso, cercando di capire se l’ha corretta con qualcos’altro. «E di caffè» aggiunge. «Ma adesso ascolta, Grayson. Cinque cose.» «Non ci posso credere che hai svegliato tutto il mio vicinato alle cinque e quarantatré senza uno straccio
di ragione.» «Guarda» dice lui a voce più alta di quanto dovrebbe essere concesso a quest’ora del mattino «che ti ho svegliato per cinque ragioni, come sto cercando di dirti da quando sei salito, solo che tu continui a interrompermi, che tra l’altro è una cosa più da me che da te». Conosco Tiny Cooper da quando era un enorme scolaretto gay. L’ho visto ubriaco e sobrio, affamato e sazio, casinista e molto casinista, innamorato e innamoratissimo. L’ho visto nei momenti belli e in quelli brutti, in salute e in malattia. E in tutti questi anni non l’ho mai sentito fare una battuta diretta verso se stesso. E non posso fare a meno di
pensare: forse Tiny Cooper dovrebbe friggersi più spesso il cervello con la caffeina. «Va bene, quali sono queste cinque cose?» gli chiedo. «Uno: ieri sera verso le undici ho finito il casting per lo spettacolo mentre ero in skype con Will Grayson. Mi ha aiutato. Io imitavo tutti gli aspiranti attori e lui mi aiutava a scegliere i meno terribili.» «L’altro Will Grayson» lo correggo. «Due» dice lui come se non mi avesse neanche sentito. «Poco dopo Will è andato a dormire. E io stavo pensando tra me e me che sono passati otto giorni da quando l’ho incontrato e tecnicamente non mi è mai piaciuto qualcuno a cui
piacevo per otto giorni in tutta la mia vita, a meno di non contare la mia storia con Bethany Keen in terza, che ovviamente non conta perché è una ragazza.Tre. Stavo pensando a queste cose e me ne stavo a letto a fissare il soffitto e a guardare le stelle che abbiamo attaccato quando eravamo tipo in prima media. Te le ricordi? Le stelle fosforescenti con la cometa eccetera?» Annuisco, ma lui non mi guarda, anche se siamo fermi a un semaforo. «Be’,» continua «stavo guardando quelle stelle che stavano scomparendo lentamente perché era passato qualche minuto da quando avevo spento la luce e poi ho avuto un’illuminazione spirituale accecante. Di cosa parla Tiny Dancer?
Cioè, qual è l’argomento vero, Grayson? Tu hai letto il copione.» Do per scontato che come sempre si tratti di una domanda retorica, per cui non dico niente in modo che possa andare avanti a blaterare, perché, per quanto possa essere doloroso per me ammetterlo, c’è qualcosa di fantastico nel modo in cui blatera Tiny, soprattutto mentre io sono ancora mezzo addormentato in una strada silenziosa. C’è qualcosa nel suo modo di parlare che mi dà un piacere indefinibile, anche se vorrei che non fosse così. È qualcosa nella sua voce, non nel tono o nella dizione a mitraglietta, ma nella voce in sé: la sua familiarità, credo, ma anche la sua inesauribilità.
Ma lui non dice niente per un po’ e a quel punto mi rendo conto che vuole davvero che io risponda. Non so cosa vuole sentirsi dire, così finisco per dirgli la verità. «Tiny Dancer parla di Tiny Cooper» dico. «Esatto!» urla lui tirando un pugno contro il volante. «E nessun grande musical parla di una sola persona. È questo il problema. È tutto qui il problema dello spettacolo. Non parla di tolleranza o di comprensione o di amore o di altra roba del genere. Parla di me. Non che io abbia qualcosa contro di me. Cioè, sono una persona favolosa, no?» «Sei una colonna di favolosità per la comunità intera» gli dico. «Infatti» dice lui. Sta sorridendo, ma
è difficile capire quanto stia scherzando. Siamo arrivati a scuola, il posto è deserto, neanche un’auto nel parcheggio dei prof. Lui svolta nel suo solito posto, prende lo zainetto dal sedile posteriore, scende e si mette a camminare attraverso il parcheggio vuoto. Lo seguo. «Quattro» dice. «Così ho capito che nonostante la mia grande e manifesta favolosità, lo spettacolo non può parlare di me. Deve parlare di qualcosa di ancora più favoloso: l’amore. La stramagnifica policroma tunica dei sogni dell’amore in tutta la sua gloria. E quindi dovevo riscriverlo. E cambiare il titolo. E così sono dovuto stare alzato tutta la notte. E ho scritto come un pazzo
un nuovo musical che si intitola Stringimi più forte. Ci serviranno più scenografie di quelle che pensavo. E poi! E poi! Più voci per il coro. Il coro deve essere una specie di muro di canzoni, cazzo.» «Va bene, va bene. E qual è la quinta cosa?» «Ah, giusto.» Sfila una spalla da una bretella dello zaino e se lo fa scivolare davanti al petto. Apre la tasca, rovista per un momento con una mano e poi tira fuori una rosa fatta di nastro adesivo verde. Me la porge. «Quando sono stressato» spiega «mi viene da fare delle cose con le mani. Va bene. Va bene. Devo andare all’auditorium e iniziare a chiudere un po’ di scene. Devo vedere
come viene sul palco il nuovo materiale». Mi fermo. «Mmm, hai bisogno che ti aiuti?» Lui scuote la testa. «Senza offesa, Grayson, ma quali sono le tue credenziali teatrali?» Si sta allontanando e io cerco di mantenere la posizione, ma alla fine mi metto a inseguirlo su per i gradini della scuola perché ho una domanda che non posso non fargli. «Ma allora perché diavolo mi hai svegliato alle cinque e quarantatré del mattino?» Lui si volta verso di me. È impossibile non percepire la sua immensità mentre si erge sopra di me oscurando quasi completamente la
scuola alle sue spalle. Il suo corpo è un enorme ammasso di minuscoli tremori. I suoi occhi sono spalancati in modo innaturale, come quelli di uno zombie. «Be’, dovevo dirlo a qualcuno» dice. Ci penso sopra per un minuto e poi lo seguo dentro l’auditorium. Per l’ora seguente guardo Tiny correre in giro per il teatro borbottando da solo come un pazzo scatenato. Attacca per terra dei pezzi di nastro adesivo per indicare la posizione di scenografie immaginarie, piroetta attraverso il palco mentre canticchia sottovoce i testi delle canzoni in modalità accelerata e ogni tanto urla: «Non parla di Tiny! Parla dell’amore!». Poi iniziano ad arrivare degli altri studenti per la prima ora di teatro e io e
Tiny andiamo ad algebra e Tiny compie il miracolo del Grande-Uomo-NelPiccolo-Banco e io ne resto affascinato come sempre e la scuola è una noia e poi a pranzo mi siedo con Gary e Nick e Tiny, e Tiny parla della sua accecante illuminazione spirituale in un modo che fa capire che non ha interiorizzato del tutto l’idea che la terra non ruoti attorno all’asse di Tiny Cooper e poi io dico a Gary: «Ehi, dov’è Jane?». E Gary dice: «Malata». Al che Nick aggiunge: «Malata del tipo passerò-la-giornata-al-giardinobotanico-con-il-mio-ragazzo». Gary gli lancia uno sguardo di disapprovazione. Tiny cambia velocemente argomento e io cerco di ridere nei momenti giusti per
il resto del pranzo, ma non sto ascoltando quello che dicono. So che sta con Mister Pallanuoto e so che certe volte quando stai con qualcuno fai cose idiote tipo andare al giardino botanico, ma nonostante tutto quello che so mi sento comunque di merda per il resto della giornata. Prima o poi, continuo a dirmi, imparerai a stare zitto e fregartene per davvero. E fino ad allora... be’, fino ad allora continuerò a fare dei bei respiri, perché è come se mi avessero risucchiato fuori l’aria dai polmoni. E anche se non piango mi sento molto peggio rispetto a come mi sentivo sul finale di Charlie Anche i cani vanno in paradiso.
Dopo la scuola chiamo Tiny, ma mi risponde la segreteria telefonica, per cui gli mando un sms: «L’Originale Will Grayson le chiede l’onore di una sua telefonata quando le sarà possibile». Lui non chiama fino alle 21:30. Io sono seduto sul divano a guardare una stupida commedia romantica con i miei. I piatti del nostro takeaway-cinese-messo-sudei-piatti-veri-così-sembra-fatto-in-casa coprono il tavolino del salotto. Papà si sta addormentando, come sempre quando non sta lavorando. Mamma è seduta più vicina a me di quanto mi sembra necessario. Guardando il film non riesco a smettere di pensare che vorrei essere a passeggiare in quello schifo di giardino
botanico con Jane, lei con la sua felpa con il cappuccio e io che faccio battute sui nomi scientifici delle piante e lei che dice che ficaria verna sarebbe un bel nome per un gruppo di nerd che rappano solo in latino e così via. Mi immagino tutta quella cavolo di scena e mi sento tanto disperato che quasi ne parlo con mia mamma, ma questo vorrebbe dire domande su Jane per i prossimi setteotto anni. I miei sanno così poche cose sulla mia vita privata che ogni volta che se ne ritrovano davanti un pezzetto ci si attaccano con le unghie e con i denti per secoli. Vorrei che fossero più bravi a nascondere il loro desiderio di vedermi con intorno un sacco di amici e di ragazze.
Così Tiny mi chiama e io dico: «Ciao» e poi mi alzo e vado in camera mia e chiudo la porta e per tutto quel tempo Tiny non dice niente e allora io dico: «Pronto?» e lui dice: «Sì, ciao» distrattamente e sento che sta scrivendo sulla tastiera del computer. «Tiny, stai digitando?» Lui dice dopo un momento: «Aspetta. Fammi finire questa frase». «Tiny, sei stato tu a chiamarmi.» Silenzio. Rumore di tasti. E poi: «Sì, lo so. Però devo cambiare l’ultima canzone. Non può parlare di me. Deve parlare dell’amore». «Vorrei non averla baciata. Tutta questa storia del suo ragazzo mi sta mandando in pappa il cervello.»
E poi sto zitto per un po’ e alla fine lui dice: «Scusa, ho Will in chat. Mi sta dicendo che ha pranzato con questo suo nuovo amico gay. Lo so che mangiare insieme in mensa non è un appuntamento, però... Gideon. Sembra figo. Però è grandioso che Will lo abbia detto a tutti quanti. Giuro su Dio che penso che abbia scritto al presidente degli Stati Uniti una cosa del tipo: Caro Presidente, sono gay. Cordiali saluti, Will Grayson. È magnifico, Grayson.» «Ma hai sentito almeno quello che ho detto?» «Jane e il suo ragazzo ti mandano in pappa il cervello» risponde lui senza il minimo interesse. «Tiny, ti giuro che certe volte...»
Evito di dire qualcosa di patetico e ricomincio. «Vuoi fare qualcosa domani dopo la scuola? Giochiamo a freccette o facciamo qualcosa da te?» «Ho le prove e poi devo scrivere e poi ho una telefonata con Will e poi devo andare a letto. Puoi venire a vedere le prove, se vuoi.» «No» dico io. «Va bene così.» Dopo che ho appeso, cerco di leggere Amleto per un po’, ma non ci capisco granché e devo continuare a guardare le note e mi sento un idiota. Non intelligente. Non figo. Non simpatico. Non divertente. Io sono così: un grande non. Sono sdraiato sopra le coperte con i vestiti ancora addosso, il libro ancora
sul petto, gli occhi chiusi, la mente che corre. Sto pensando a Tiny. La cosa patetica che avrei voluto dirgli al telefono (e che non ho detto) è questa: da bambino, hai una cosa. Magari è una coperta o un pupazzo o qualcos’altro. Per me era un cane della prateria di peluche che avevo ricevuto per Natale quando avevo tre anni. Non ho idea di dove avessero trovato un cane della prateria di peluche, ma in ogni caso lui se ne stava seduto sulle zampe posteriori e io lo avevo chiamato Marvin e me lo sono portato dietro tenendolo per le sue orecchie da cane della prateria finché non ho avuto una decina di anni. E poi a un certo punto non è che ci fosse qualcosa di personale contro
Marvin, ma ho iniziato a fargli passare più tempo nell’armadio insieme agli altri giochi e poi ancora di più, finché Marvin è diventato un residente a tempo pieno del mio armadio. Ma dopo di allora, per molti anni, ogni tanto tiravo fuori Marvin e me lo portavo dietro per un po’. Non lo facevo per me, ma per lui. Mi rendevo conto che era una cosa pazza, ma lo facevo lo stesso. E la cosa che volevo dire a Tiny è che a volte mi sento come se fossi il suo Marvin. Ci ricordo insieme: io e Tiny in palestra alle medie, il fatto che non facessero dei pantaloncini da ginnastica
abbastanza grandi per lui, per cui sembrava che avesse addosso un costume da bagno attillatissimo. Tiny che dominava le partite di palla prigioniera nonostante la sua mole e mi permetteva di piazzarmi sempre secondo semplicemente mettendomi nella sua ombra e non colpendomi fino alla fine. Io e Tiny alla parata del Gay Pride a Boys Town, al nono anno, e lui che dice: «Grayson, sono gay» e io che faccio: «Oh, davvero? E il cielo è blu? E il sole sorge a est? E il Papa è cattolico?» e lui: «E Tiny Cooper è favoloso? E gli usignoli piangono commossi quando lo sentono cantare?». Penso a quanto sia importante un migliore amico. Quando ti svegli la
mattina e metti le gambe fuori dal letto e appoggi i piedi per terra e ti alzi in piedi. Non è che ti avvicini al bordo del letto e guardi giù per assicurarti che il pavimento sia ancora lì. Il pavimento c’è sempre. E poi a un certo punto non c’è più. È stupido dare la colpa all’altro Will Grayson per qualcosa che stava succedendo prima che lui esistesse. Però. Però continuo a pensare a lui, ai suoi occhi spalancati da Frenchy’s, in attesa di una persona che non esisteva. Nei miei ricordi i suoi occhi diventano sempre più grandi, quasi come il personaggio di un manga. E poi penso a quel tizio, Isaac, che era una ragazza.
Ma le cose che si erano detti, quelle che avevano spinto Will ad andare da Frenchy’s per incontrare Isaac... quelle cose se le erano dette. Erano cose vere. All’improvviso prendo il cellulare dal comodino e chiamo Jane. Segreteria telefonica. Guardo l’orologio sul telefono: sono le 9:42. Chiamo Gary. Risponde al quinto squillo. «Will?» «Ciao, Gary. Sai l’indirizzo di Jane?» «Be’, sì.» «Me lo puoi dare?» Lui fa una pausa. «Hai intenzione di diventare uno stalker, Will?» «No, giuro. Devo chiederle una cosa per scienze» dico io. «Devi chiederle una cosa per scienze
il martedì sera alle nove e quarantadue?» «Esatto.» «1712, Wesley.» «E dov’è la sua camera da letto?» «Il mio rilevatore di stalker sta andando sul rosso, amico.» Non rispondo. Aspetto. E poi alla fine lui dice: «A sinistra guardando la casa». «Fantastico, grazie.» Prendo le chiavi dal ripiano della cucina mentre esco e papà mi chiede dove sto andando e io cerco di cavarmela con un «Fuori» ma lui azzera il volume della televisione, mi si avvicina come per ricordarmi che è un pochino più alto di me e mi chiede con voce severa: «Fuori con chi e dove?».
«Tiny vuole che lo aiuti con il suo stupido spettacolo.» «A casa alle undici» dice mamma dal divano. «Va bene» dico io. Mi avvio verso l’auto. Vedo le nuvolette del mio respiro ma non sento freddo, a parte le mani senza guanti, e sto fuori dall’auto per un secondo, guardo il cielo, la luce arancione che viene dalla città a sud, gli alberi senza foglie nella brezza gentile. Apro la portiera, che cigola nel silenzio, e percorro il miglio che mi separa dalla casa di Jane. Trovo un parcheggio a mezzo isolato da lì e risalgo la strada a piedi fino a una vecchia casa a due piani con una grande veranda. Queste case
costano parecchio. C’è una luce accesa nella stanza a sinistra, ma quando ci arrivo decido di volermi avvicinare di più. E se si stesse cambiando? E se fosse a letto e vedesse la faccia di un tizio schiacciata contro il vetro? E se si stesse dando da fare con Randall Strillacagne? Così le mando un sms: Prendila nel modo meno da stalker possibile. Sono davanti a casa tua. Sono le 21:47. Penso che aspetterò fino alle 21:50 e poi me ne andrò. Mi ficco una mano nella tasca dei jeans e stringo il cellulare nell’altra, premendo il tasto del volume ogni volta che si spegne lo schermo. Sono le 21:49 da almeno dieci secondi quando si apre la porta e Jane dà un’occhiata fuori.
Io le faccio un saluto minuscolo con la mano che non si alza neanche sopra la testa. Jane si porta un dito alle labbra e poi esce di casa in punta di piedi con un’aria molto teatrale e chiude lentissimamente la porta dietro di sé. Scende i gradini della veranda e vedo che indossa la stessa felpa verde con il cappuccio di prima, ma adesso ha dei pantaloni del pigiama di flanella rossa e dei calzettoni. Niente scarpe. Mi si avvicina e sussurra: «È un piacere un po’ inquietante vederti qui». E io dico: «Ti dovevo chiedere una cosa per scienze». Lei sorride e annuisce. «Certo, certo. Ti stai chiedendo com’è scientificamente possibile che mi presti
così tanta attenzione adesso che ho un ragazzo mentre prima non ti interessavo per niente. Purtroppo però la scienza non è in grado di risolvere i misteri della psicologia maschile.» Ma io ho davvero una domanda di scienze da farle. Riguarda Tiny e me, e lei, e i gatti. «Mi puoi spiegare la faccenda del gatto di Schrödinger?» «Vieni» dice lei, dopodiché mi prende per la giacca e mi trascina per il marciapiede. Io cammino accanto a lei senza dire niente, e lei borbotta. «Dio dio dio dio dio dio dio dio» e io dico: «Cosa c’è che non va?» e lei: «Tu. Tu, Grayson. Sei tu che non vai» e io: «Cosa?» e lei: «Lo sai» e io: «No che non lo so» e lei (sempre camminando e
senza guardarmi): «Probabilmente esistono delle ragazze che non vogliono che qualcuno si presenti a casa loro senza avvisare il martedì sera con delle domande su Edwin Schrödinger. Sono sicura che esistono, queste ragazze. Ma non vivono in casa mia». Arriviamo cinque o sei case dopo quella di Jane, vicino a dove è parcheggiata la mia auto, e poi lei svolta verso una casa con un cartello IN VENDITA e sale i gradini fino a un dondolo in veranda. Si siede e mi indica il posto accanto a lei. «Non ci vive nessuno, qui?» chiedo. «No. È in vendita da tipo un anno.» «Probabilmente ci hai limonato con il Viscido, su questo dondolo.»
«Probabilmente sì» risponde lei. «Schrödinger stava conducendo un esperimento intellettuale. Dunque... era appena uscito un saggio che sosteneva che se un elettrone può essere in uno qualsiasi di quattro posti diversi, allora è come se fosse in tutti e quattro i posti fino al momento in cui qualcuno determina in quale dei quattro si trova. È chiaro?» «No» dico io. Porta dei calzettoni corti bianchi e quando scalcia per far oscillare il dondolo le vedo la caviglia. «Infatti, non è per niente chiaro. È un’idea strana di brutto. Così Schrödinger cerca di chiarirla. Dice: mettiamo un gatto dentro una scatola sigillata con un pezzetto di roba
radioattiva che potrebbe o meno (a seconda della posizione delle sue particelle subatomiche) innescare un rilevatore che diffonderebbe del veleno nella scatola e ucciderebbe il gatto. Mi segui?» «Credo di sì» dico io. «Così, secondo la teoria per la quale gli elettroni sono in tutte le posizioni possibili finché non vengono misurati, il gatto è sia vivo che morto finché non apriamo la scatola e scopriamo se è vivo o morto. Non è che fosse un sostenitore delle torture sui gatti. Stava solo dicendo che sembrava un po’ improbabile che un gatto potesse essere contemporaneamente vivo e morto.» Ma a me non sembra improbabile. Mi
sembra che tutte le cose che teniamo dentro delle scatole sigillate siano sia vive che morte finché non apriamo la scatola. Mi sembra che le cose che non guardiamo ci siano e non ci siano al tempo stesso. Forse è per questo che non riesco a smettere di pensare agli occhioni dell’altro Will Grayson da Frenchy’s: perché aveva appena fatto morire il gatto vivo-e-morto. Mi rendo conto che è per questo che non mi metto mai in una situazione in cui potrei avere davvero bisogno di Tiny ed è per questo che ho seguito le regole invece di baciare Jane quando era disponibile. Ho scelto la scatola chiusa. «Va bene» dico senza guardarla. «Credo di avere capito.»
«Be’, non è tutto qui, in effetti. È una cosa un po’ più complicata.» «Non credo di essere abbastanza intelligente per una cosa più complicata di questa» dico io. «Non sottovalutarti» dice lei. Il dondolo cigola e io cerco di pensare per bene a tutto quanto. La guardo. «Alla fine hanno capito che tenendo la scatola sigillata il gatto non si mantiene vivo-e-morto. Anche se tu non osservi il gatto, a prescindere dallo stato in cui si trova, l’aria dentro la scatola lo fa. Per cui tenendo la scatola chiusa tieni al buio te stesso, non l’universo.» «Ho capito» dico. «Ma se non apri la scatola non uccidi il gatto.» Non stiamo
più parlando di fisica. «No» dice lei. «Il gatto era già morto... o vivo, forse.» «Be’, il gatto ha un ragazzo» dico io. «Forse al fisico piace che il gatto abbia un ragazzo.» «È possibile» dico io. «Amici» dice lei. «Amici» dico io. Ci stringiamo la mano.
capitolo quattordici mamma insiste perché prima che vada da qualsiasi parte con tiny lui venga a cena da noi. sono sicuro che controllerà prima tutti gli elenchi dei maniaci sessuali online. questa cosa che l’ho incontrato in rete non le va giù. e, viste le circostanze, non posso darle torto. è un po’ sorpresa quando accetto, anche se le dico io: però non chiedergli dei suoi quarantatré ex, va bene? e non chiedergli neanche perché va in giro con un’ascia.
mamma: ... io: sull’ascia scherzavo. ma in realtà non c’è niente che io possa dire per calmarla. è pura follia. si infila dei guanti di gomma gialla e inizia a pulire tutto con la determinazione che di solito si usa quando qualcuno ha vomitato per terra. le dico che non deve farlo, che tanto tiny non mangerà sul pavimento. ma lei mi zittisce con un gesto e mi dice di andare a mettere a posto la mia stanza. e io ho intenzione di farlo. davvero. però tutto quello che faccio in realtà è cancellare la cronologia del mio browser, dopodiché mi sento stanchissimo. tanto le caccole le stacco
già dalle lenzuola tutte le mattine. sono un tipo abbastanza pulito. tutti i vestiti sporchi sono nascosti in fondo all’armadio. tiny non li vedrà. e alla fine arriva il momento. a scuola gideon mi chiede se sono nervoso per il fatto che tiny viene da me e io gli dico che non lo sono per niente. però in effetti è una bugia. sono nervoso soprattutto per mia mamma e per come si comporterà. lo sto aspettando in cucina e mamma sta correndo in giro per casa come una pazza. mamma: devo condire l’insalata. io: perché? mamma: a tiny non piace l’insalata? io: te l’ho già detto, credo che tiny
mangerebbe anche dei cuccioli di foca, ma non ti preoccupare, dai. e intanto penso che dovrei essere io quello che sclera in questa situazione. tiny sarà il mio primo r-r-r-r-r (non ce la faccio) rag-g-g-g-g (dai, will) rag-rag (ce la puoi fare) ragazzo che lei incontra, anche se nel caso dovesse continuare a parlare di insalata sarò costretto a chiuderla in camera da letto prima dell’arrivo di tiny. mamma: sei sicuro che non sia allergico a niente? io: calmati. come se all’improvviso mi fossero venuti dei superpoteri canini, sento
un’auto che svolta nel vialetto. prima che mamma mi possa dire di pettinarmi e mettermi le scarpe, esco e guardo tiny spegnere il motore. io: scappa! scappa! ma la radio è così alta che tiny non mi può sentire. sorride e basta. mentre apre la porta, do un’occhiata alla sua auto. io: ma che...?!? è una mercedes argento, il tipo di auto che ti aspetteresti da un chirurgo plastico, e non di quelli che sistemano la faccia dei bambini affamati in africa, di quelli che convincono le donne che le loro vite sono finite se dimostrano più di
dodici anni. tiny: salve, terrestri! vengo in pace. accettatemi come vostro leader! dovrebbe essere strano trovarmelo davanti solo per la seconda volta da quando stiamo insieme, e dovrebbe essere emozionante sapere che sto per essere avvolto da quelle sue braccia enormi, ma sono ancora con gli occhi incollati sull’auto. io: ti prego, dimmi che l’hai rubata. lui sembra un po’ confuso, e poi solleva un sacchetto. tiny: questa?
io: no. l’auto. tiny: oh. be’. in effetti sì, l’ho rubata. io: davvero? tiny: sì, a mia mamma. la mia era praticamente senza benzina. è stranissimo. tutte le volte che abbiamo parlato o ci siamo messaggiati o abbiamo chattato ho sempre immaginato che tiny fosse in una casa come la mia o in una scuola come la mia o in un’auto come quella che un giorno avrei potuto avere anch’io... un’auto vecchia quasi quanto me, probabilmente comprata per poco da una vecchietta a cui hanno ritirato la patente. adesso mi rendo conto che non è così. io: tu vivi in una casa grande, vero?
tiny: abbastanza grande per contenermi. io: non è quello che volevo dire. non ho idea di cosa sto facendo. è come se stessi rallentando tutto quanto. e anche se adesso è proprio davanti a me, qualcosa non va come dovrebbe. tiny: tu, vieni qui. e con queste tre parole mette giù il sacchetto e apre le braccia e il suo sorriso è così grande che sarei uno stronzo se non mi ci gettassi dentro. e una volta lì, lui si abbassa e mi dà un bacetto leggero. tiny: ciao.
lo bacio anch’io. io: ciao. va bene, quindi la realtà è questa: lui è qui. è reale. siamo reali. chissenefrega dell’auto. quando entriamo in casa mamma si è tolta il grembiule. anche se l’ho avvisata che tiny è grande come lo utah, c’è comunque un breve istante di sbalordimento quando lo vede. lui deve esserci abituato, o forse non gliene frega niente, perché le si avvicina e inizia a dire tutte le cose giuste su come è contento di conoscerla e come è bello che lei ha preparato la cena e come è bella la casa. mamma gli indica il divano e gli
chiede se vuole qualcosa da bere. mamma: abbiamo coca, diet coke, limonata, succo d’arancia... tiny: oh, io adoro la limonata. io: non è vera limonata. è solo una bibita al gusto di limone. mamma e tiny mi guardano come se fossi il peggiore dei guastafeste. io: non volevo che ti aspettassi di bere della vera limonata! non posso farci niente: vedo il nostro appartamento con i suoi occhi, le nostre vite con i suoi occhi, e sembra tutto così squallido. le macchie di umidità sul soffitto e il tappeto sbiadito e la tele che
avrà chissà quanti anni. tutta la nostra casa puzza di debiti. mamma: perché non vai a sederti vicino a tiny mentre io ti vado a prendere una coca? questa mattina ho preso le mie pillole, lo giuro. ma è come se mi fossero finite nelle gambe invece che nel cervello, perché non riesco proprio a sentirmi felice. mi siedo sul divano e appena mia mamma esce dalla stanza tiny mi prende la mano. dita che accarezzano dita. tiny: va tutto bene, will. sono contentissimo di essere qui. lo so che ha avuto una settimana
difficile. lo so che le cose non sono andate come pensava lui e che è preoccupato che il suo spettacolo sia un fiasco. lo sta riscrivendo pezzo per pezzo («chi lo sapeva che sarebbe stato così complicato far stare l’amore dentro quattordici canzoni?»). lo so che aspettava questo momento, e so che lo aspettavo anch’io. ma adesso devo smettere di aspettarlo e iniziare a viverlo. ed è difficile. mi appoggio alla spalla carnosa di tiny. non posso credere di essere eccitato da qualcosa che si possa associare all’aggettivo carnoso. io: questa è la parte difficile, va
bene? per cui resta in onda in attesa di quella buona. ti prometto che arriverà presto. quando torna mia mamma sono ancora piegato su di lui. lei non batte ciglio, non si ferma, non sembra darle fastidio. mette giù i bicchieri e poi corre di nuovo in cucina. sento il forno che si apre e si richiude, poi il rumore di una spatola contro la carta da forno. un minuto dopo è di ritorno con un piatto di hot dog e crocchette in miniatura. ci sono anche due ciotoline, una con il ketchup e una con la maionese. tiny: yum! ci buttiamo sul cibo e tiny inizia a
raccontare a mamma della settimana che ha avuto e la riempie di così tanti dettagli su stringimi più forte che la vedo in confusione totale. mentre tiny parla, mamma resta in piedi finché non le dico di sedersi con noi. così prende una sedia e ascolta e mangia addirittura una crocchetta o due. le cose iniziano a sembrarmi più normali. il fatto che tiny sia qui, che mamma ci veda insieme. io seduto in modo che una parte del mio corpo tocchi sempre quello di lui. è quasi come se fossimo tornati al millennium park, come se stessimo continuando quella conversazione fuori dal tempo. ed è qui che questa storia sembra destinata ad arrivare. come sempre, la domanda è:
manderò tutto a puttane? quando non è rimasto più nessun aperitivo da mangiare mamma porta via i piatti e dice che la cena sarà pronta tra pochi minuti. appena esce, tiny si volta verso di me. tiny: la amo. sì, penso io, lui è proprio il tipo di persona che può amare qualcuno con tanta facilità. io: non è male. quando mamma torna a dirci che la cena è pronta, tiny schizza su dal divano. tiny: oh! quasi dimenticavo...
prende il sacchetto che ha portato e lo porge a mia mamma. tiny: un pensierino... mamma sembra davvero sorpresa. tira fuori la scatola dal sacchetto. c’è sopra il nastro e tutto quanto. tiny si rimette a sedere, così anche mamma si siede per aprire la scatola. disfa il nodo del nastro con grande delicatezza, poi solleva piano il coperchio della scatola. c’è un cuscinetto nero di polistirolo e qualcosa avvolto nella plastica protettiva. con ancora più cura mamma apre il pacchettino e ne tira fuori una ciotola di vetro. all’inizio non capisco. cioè, è una ciotola di vetro. ma mia madre trattiene
il fiato. trattiene le lacrime. perché non è solo una ciotola di vetro. è perfetta. cioè, è così liscia e perfetta e noi restiamo seduti a guardarla per un istante mentre mia mamma se la rigira lentamente tra le mani e anche nel nostro salottino squallido splende come un diamante. nessuno le ha mai regalato niente del genere da secoli. forse mai. nessuno le regala mai niente di così bello. tiny: l’ho scelta io! non ne ha idea. non ha idea di cosa ha appena fatto. mamma: oh, tiny...
ha perso le parole. però io capisco. è il modo in cui tiene la ciotola in mano. è il modo in cui la guarda. lo so cosa la sua mente le sta dicendo di dire. dovrebbe dire che è troppo, che non può accettare una cosa così bella, anche se lo vorrebbe tantissimo, anche se le piace da morire. così sono io a parlare. io: è bellissima. grazie mille, tiny. lo abbraccio e lo ringrazio anche così. poi mamma appoggia la ciotola sul tavolino che ha tirato a lucido. si alza in piedi. apre le braccia. e tiny abbraccia anche lei. questo è ciò di cui non mi sono mai concesso di avere bisogno.
e naturalmente questo è ciò di cui ho sempre avuto bisogno. a dire la verità tiny mangia quasi tutto il pollo e si accaparra anche quasi tutta la conversazione. parliamo soprattutto di cose stupide: perché gli hot dog in miniatura hanno un sapore più buono di quelli normali, perché i cani sono meglio dei gatti, perché cat s ha avuto così tanto successo negli anni ottanta quando sondheim era mille volte meglio di lloyd webber (io e mamma non diciamo molto al riguardo). a un certo punto tiny vede la cartolina di leonardo da vinci che mamma ha attaccato al frigorifero e le chiede se è mai stata in italia. così lei gli racconta del viaggio
che ha fatto con tre amiche al secondo anno di università e per una volta è una storia interessante. lui le dice che preferisce napoli a roma, perché la gente lì è così legata al posto in cui vive. dice che ha scritto una canzone sui viaggi per il suo musical, ma che alla fine l’ha tagliata. ce ne canta qualche verso: Dopo che sei stato a Napoli è difficile non amare quei popoli. E dopo che sei stato a Milano non vorresti mai starne lontano. Dopo che sei stato a Venezia ogni altro posto ti sembra un’inezia. E dopo che hai visto Bologna il resto del mondo arrossisce di vergogna.
Essere un gay transatlantico è rischioso se sei un romantico. Perché dopo che a Roma sei stato non vorresti mai esser tornato. per la prima volta da quando io ricordi, mamma sembra in estasi. canticchia addirittura un po’ insieme a lui. quando tiny finisce, l’applauso di mamma è sincero. immagino sia ora di chiudere questo tripudio d’amore, prima che tiny e mamma scappino insieme e mettano su una band. mi offro di lavare i piatti e mamma reagisce come se ne fosse sconvolta. io: li lavo sempre, i piatti.
mamma guarda tiny un’espressione molto seria.
con
mamma: ci puoi scommettere che li lava. e poi scoppia a ridere. la cosa non mi piace granché, ma so perfettamente che potrebbe andare molto peggio. tiny: voglio vedere la tua camera! non è una richiesta del tipo ehi-maquanto-fa-caldo-in-questa-stanza. quando tiny dice che vuole vedere la tua camera, vuol dire che vuole vedere... la tua camera.
mamma: andate pure. ci penso io ai piatti. tiny: grazie, signora grayson. mamma: anne. chiamami anne. e dammi del tu. tiny: grazie, anne! io: sì, grazie, anne. tiny mi tira un pugno sulla spalla. credo che volesse darmelo piano, ma è come se qualcuno mi avesse investito la spalla con una volkswagen. lo porto in camera mia e riesco addirittura a fare un ta-da! quando apro la porta. lui va al centro della stanza e si gode il panorama senza mai smettere di sorridere. tiny: pesci rossi!
va dritto alla bolla. gli spiego che se i pesci rossi conquisteranno mai il mondo e decideranno di fare un processo per crimini di guerra io sarò nei guai seri perché il tasso di mortalità nella mia bolla è molto più alto che se vivessero in un ristorante cinese. tiny: come si chiamano? oddio. io: sansone e dalila. tiny: davvero? io: lei è una gran zoccola. si china un po’ per guardare meglio il loro mangime.
tiny: gli dai da mangiare delle pillole? io: oh, no, quelle sono mie. tenerli insieme è l’unico modo che ho per ricordarmi di dare da mangiare ai pesci e prendere le medicine. però adesso penso che forse avrei dovuto fare un po’ meglio le pulizie perché tiny sta arrossendo e non farà altre domande e anche se non mi va di parlarne non voglio neanche che pensi che mi sto curando la scabbia o roba del genere. io: sono antidepressivi. tiny: oh, mi sento anch’io depresso, certe volte. ci
stiamo
avvicinando
pericolosamente alle conversazioni che facevo con maura, quando lei diceva di sapere perfettamente cosa stavo passando e io le dovevo spiegare che non lo sapeva per niente perché la sua tristezza non andava mai in profondità come la mia. non ho dubbi sul fatto che tiny ogni tanto pensi di sentirsi depresso, ma probabilmente è solo perché non ha idea di cosa voglia dire esserlo per davvero. ma cosa dovrei dire? che io non mi sento depresso, che è come se la depressione fosse al centro del mio essere, in ogni parte di me, dalla mente alle ossa? che se lui si sente giù, io mi sento ancora più sotto? che odio a morte quelle pillole perché so quanto la mia vita dipenda da loro?
no, non potrei dire niente del genere. perché alla fine nessuno vuole sentirselo dire, per quanto tu possa piacergli o per quanto ti possa amare. tiny: qual è sansone e qual è dalila? io: a dire la verità non me lo ricordo. tiny passa in rassegna lo scaffale dei libri, sfiora la mia tastiera, fa girare il mappamondo che mi hanno regalato per la promozione in quinta elementare. tiny: guarda! un letto! per un secondo penso che stia per saltarci sopra, il che quasi certamente significherebbe la morte del mio letto. invece si siede sul bordo con un sorriso
quasi timido. tiny: comodo! come sono finito con questa specie di ciambellona? con un sospiro per niente scocciato mi siedo accanto a tiny. il materasso è decisamente più basso dalla sua parte. ma prima del passo inevitabile il mio cellulare vibra sulla scrivania. ho intenzione di ignorarlo, ma vibra ancora e tiny mi dice di rispondere. apro il telefono e leggo il messaggio. tiny: chi è? io: è solo gideon. vuole sapere come vanno le cose. tiny: gideon, eh?
c’è un’inconfondibile nota di sospetto nella voce di tiny. chiudo il cellulare e torno sul letto. io: non sei geloso di gideon, vero? tiny: ma figurati. solo perché è carino e giovane e gay e ti può vedere tutti i giorni? perché dovrei essere geloso? lo bacio. io: non hai niente di cui essere geloso. siamo solo amici. a quel punto mi rendo conto di una cosa e inizio a ridere. tiny: cosa c’è? io: c’è un ragazzo nel mio letto!
è un pensiero così stupido e gay. ho la sensazione che mi dovrei incidere la scritta ODIO IL MONDO un centinaio di volte sul braccio per andare in pari. il letto in effetti non è abbastanza grande per tutti e due. finisco due volte sul pavimento. restiamo completamente vestiti, ma quasi non importa, perché ci stiamo addosso l’un l’altro. lui è forte e grosso ma io tiro e spingo quanto lui. nel giro di pochi minuti siamo ridotti a un disastro. quando ci stanchiamo restiamo semplicemente lì sdraiati. il battito del suo cuore è fortissimo. sentiamo mia madre accendere la tv. i detective iniziano a parlare. tiny mi infila la mano sotto la camicia.
tiny: dov’è tuo padre? sono completamente impreparato a questa domanda. mi irrigidisco. io: non lo so. la mano di tiny cerca di tranquillizzarmi. la sua voce cerca di calmarmi. tiny: non c’è problema. ma io non ce la faccio. mi tiro su a sedere, scappo dal suo respiro sognante, lo faccio spostare un po’ in modo che mi possa vedere bene. l’impulso che provo è forte e chiaro. all’improvviso, non posso farlo. non per mio padre - non mi
importa granché di mio padre - ma per tutta questa storia di sapere tutto. cerco di autoconvincermi. fermati. resta qui. parla. tiny sta aspettando. tiny mi sta guardando. tiny è gentile, perché non ha ancora capito chi sono, cosa sono. io non sarò mai gentile con lui. il massimo che posso fare è dargli un motivo per mollare subito. tiny: parlami. cosa vuoi dire? non chiedermelo, vorrei dirgli, e invece dico io: senti, tiny... sto cercando di
comportarmi meglio che posso, ma tu devi capire... io sono sempre sull’orlo di qualcosa di brutto e certe volte una persona come te può farmi guardare dall’altra parte, così non so quanto sono vicino a cadere. ma alla fine torno sempre a voltarmi verso il precipizio. sempre. e mi butto sempre giù. ed è una merda con cui ho a che fare tutti i giorni e non se ne andrà tanto presto. è davvero bello averti qui, ma vuoi sapere una cosa? vuoi davvero che sia sincero? dovrebbe dire di no. e invece annuisce. io: per me è come una vacanza. non credo che tu sappia come ci si sente. ed è molto meglio così. non hai idea di
quanto io odi tutto questo. odio il fatto che sto rovinando questa serata, che sto rovinando tutto quanto... tiny: non stai rovinando niente. io: e invece sì. tiny: chi lo dice? io: lo dico io. tiny: e io non ho voce in capitolo? io: no. io rovino tutto quanto, e tu non hai voce in capitolo. tiny mi orecchio.
sfiora
delicatamente
un
tiny: lo sai che sei molto sexy quando diventi distruttivo? le sue dita scendono lungo il mio collo, sotto la camicia.
tiny: lo so che non posso cambiare tuo padre o tua madre o il tuo passato, ma lo sai cosa posso fare? l’altra mano di tiny risale lungo la mia gamba. io: cosa? tiny: qualcos’altro. è questo che ti posso dare. qualcos’altro. sono abituato a tirare fuori il dolore nelle persone. ma tiny si rifiuta di fare questo gioco. quando ci messaggiamo tutto il giorno e anche qui in persona cerca sempre di arrivare al cuore di tutto. e questo vuol dire che dà sempre per scontato che ci sia un cuore a cui arrivare. io penso che sia ridicolo e lo
ammiro al tempo stesso. voglio conoscere quel qualcos’altro che ha da darmi, anche se so che non sarà mai qualcosa che posso veramente prendere e tenere per me. lo so che non è facile come dice tiny. ma lui ce la sta mettendo tutta. così mi arrendo. mi arrendo a qualcos’altro. anche se il mio cuore non ci crede fino in fondo.
capitolo quindici Il giorno dopo Tiny non è alla lezione di algebra. Immagino che sia ingobbito da qualche parte a scrivere canzoni su un taccuino comicamente sottodimensionato. La cosa non mi preoccupa troppo. Lo vedo tra la seconda e la terza ora quando passo davanti al suo armadietto. Ha i capelli sporchi e gli occhi enormi. «Troppa Red Bull?» gli chiedo avvicinandomi. Risponde a una velocità furiosa. «Lo spettacolo debutta tra nove giorni, Will
Grayson è adorabile, va tutto alla grande. Senti, Grayson, devo andare all’auditorium. Ci vediamo a pranzo.» «L’altro Will Grayson» dico io. «Eh, cosa?» chiede Tiny sbattendo la porta del suo armadietto. «L’altro Will Grayson è adorabile.» «Ah, sì, certo, certo» risponde lui. A pranzo non è al nostro tavolo, e non ci sono neanche Gary e Nick e Jane e nessun altro e non voglio starmene lì da solo per cui prendo il vassoio e vado in auditorium, immaginando che troverò tutti lì. Tiny è in piedi in mezzo al palco, un taccuino in una mano e il cellulare nell’altra, e gesticola come un pazzo. Nick è seduto in prima fila. Tiny sta parlando con Gary sul palco e, dato che
nel nostro auditorium l’acustica è fantastica, riesco a sentire quello che gli sta dicendo anche dal fondo della sala. «La cosa che devi ricordare di Phil Wrayson è che ha una paura pazzesca. Di tutto. Si comporta come se non gliene fregasse niente, ma è più vicino a crollare di tutti gli altri personaggi di questo cacchio di spettacolo. Voglio sentire un tremolio nella sua voce quando canta, il bisogno che lui spera che nessuno riesca a sentire. Perché deve essere questo che lo rende così fastidioso, capisci? Le cose che dice non sono fastidiose, è il modo in cui le dice. Così quando Tiny sta attaccando quei poster del Gay Pride e Phil non la smette di parlare degli stupidi problemi
con la ragazza che si è andato a cercare da solo, dobbiamo sentire cosa è fastidioso. Però non devi esagerare. È una cosa appena accennata. Un sassolino nella scarpa.» Resto lì fermo per un minuto, aspettando che mi veda, e alla fine succede. «È un PERSONAGGIO, Grayson» urla Tiny. «È un PERSONAGGIO INVENTATO.» Con ancora il mio vassoio in mano, faccio inversione e me ne vado. Mi siedo fuori dall’auditorium, sul pavimento di piastrelle del corridoio, appoggiato a una bacheca piena di trofei, e mangio qualcosa. Lo sto aspettando. Sto aspettando che venga fuori a scusarsi. O che venga fuori
a urlarmi che sono una fighetta. Sto aspettando che quelle porte di legno scuro si aprano e Tiny si precipiti fuori e inizi a parlare. Lo so che è una cosa da immaturi, ma non me ne frega niente. Certe volte hai bisogno che il tuo migliore amico faccia una cosa del genere. Alla fine sono io che, sentendomi piccolo e stupido, socchiudo la porta. Tiny sta cantando allegramente di Oscar Wilde. Resto lì un momento, sperando ancora che mi veda, e non so che sto piangendo finché non inizio a fare un rumore strano quando inspiro. Chiudo la porta. Se anche Tiny mi ha visto, non ha smesso di cantare. Mi avvio lungo il corridoio, la testa così bassa che le lacrime salate mi
sgocciolano dalla punta del naso. Esco dalla porta principale e scendo i gradini. Seguo il marciapiede finché non arrivo al cancello esterno e a quel punto schizzo tra i cespugli. Mi sento un groppo in gola. Attraverso i cespugli come abbiamo fatto io e Tiny al penultimo anno, quando abbiamo marinato la scuola per andare a Boys Town, alla parata del Gay Pride, quando lui mi ha detto che era gay. Arrivo a un campo della Little League a metà strada tra casa mia e la scuola. È accanto alla scuola media e quando ero più piccolo andavo spesso lì per pensare dopo la scuola. Certe volte mi portavo dietro un blocco di fogli o roba del genere e cercavo di disegnare, ma
mi piaceva soprattutto starmene lì. Faccio il giro del campo e mi siedo sulla panchina dei battitori, la schiena contro la parete di alluminio, riscaldato dalla luce del sole, e piango. C’è una cosa che mi piace della panchina: sono dalla parte della terza base e posso vedere il diamante di terra di fronte a me e le quattro file di gradinate di legno dall’altro lato e poi il campo da baseball successivo e poi un grande parco e poi la strada. Posso vedere la gente che porta a spasso il cane e una coppia che cammina controvento. Ma con le spalle al muro, con il tetto di alluminio sopra la testa, nessuno può vedermi a meno che non lo veda anch’io.
La rarità di questa situazione è il genere di cosa che fa venire da piangere. Io e Tiny abbiamo giocato insieme nella Little League. Non in questo parco, in uno più vicino alle nostre case, a partire dal terzo anno. È così che siamo diventati amici, credo. Tiny ovviamente era fortissimo, anche se con la mazza non era granché. Però era il giocatore che veniva colpito più spesso. C’era un sacco di spazio da colpire. Io ero un dignitoso giocatore di prima base e non avevo nessun record. Metto i gomiti e le ginocchia come facevo quando guardavo le partite da una panchina come questa. Tiny si sedeva sempre accanto a me e, anche se giocava solo perché l’allenatore doveva
far giocare tutti quanti, lui era sempre superentusiasta. Era tutto un: «Ehi, battitore, battitore. Ehi, battitore. SPARALA VIA, battitore» e poi passava a un: «Vogliamo un lanciatore, non un massaggiatore!». Poi, al sesto anno, Tiny stava giocando in sesta base e io in prima base. La partita era iniziata da poco e stavamo vincendo di poco o perdendo di poco, non mi ricordo. Francamente, quando giocavo non guardavo nemmeno il cartellone segnapunti. Il baseball per me era soltanto una di quelle cose bizzarre e terribili che i genitori ti fanno fare per motivi che non riesci proprio a capire, tipo le vaccinazioni o andare in chiesa. Così il battitore colpisce la
palla, che rotola vicino a Tiny. Tiny la raccoglie e la lancia in prima base con il suo braccio-cannone e io mi allungo per prenderla e la palla mi arriva nel guanto e poi ricade subito fuori perché mi sono dimenticato di chiudere il guanto. Il corridore avversario si salva e l’errore ci costa un run o qualcosa del genere. Dopo la fine dell’inning torno in panchina. L’allenatore, credo che si chiamasse signor Frye, si sporge verso di me. Io noto l’enormità della sua testa, il cappello che svetta sul suo faccione grasso, e lui mi dice: «CONCENTRATI e PRENDI quella PALLA. PRENDI la PALLA, va bene? E che cavolo!». Io mi sento la faccia andare a fuoco e dico con nella voce il tremolio che Tiny ha fatto
notare a Gary: «Mi dispiace, mister» e il signor Frye dice: «Anche a me, Will. Anche a me». E poi Tiny arriva di corsa e tira un pugno sul naso al signor Frye. E questo ha messo fine alla nostra carriera di giocatori di baseball. Non farebbe così male se non fosse che Tiny ha ragione, se non sapessi che la mia debolezza in fondo lo irrita. E forse pensa anche lui come me che non si possono scegliere i propri amici e lui si è ritrovato questo noioso strillacagne che non sa cavarsela, non sa chiudere il guanto attorno alla palla, non sa incassare una lavata di capo dall’allenatore, si pente di avere scritto
una lettera al direttore in difesa del suo migliore amico. Questa è la vera storia della nostra amicizia: io mi sono ritrovato con Tiny e lui si è ritrovato con me. Se non altro posso sollevarlo da questo peso. Ci metto parecchio tempo per smettere di piangere. Uso un guanto come fazzoletto mentre guardo l’ombra del tetto della panchina scendere lungo le mie gambe allungate a mano a mano che il sole arriva al centro del cielo. Alla fine mi sento le orecchie congelate, così mi alzo e attraverso il parco e vado a casa. Lungo la strada passo in rassegna per un po’ la rubrica del mio cellulare e poi chiamo Jane. Non so perché. Sento
di avere bisogno di chiamare qualcuno. Sento di volere ancora che qualcuno apra le porte dell’auditorium. Mi risponde la segreteria. «Mi dispiace, Tarzan, ma Jane non è disponibile. Lascia un messaggio.» «Ciao, Jane. Sono Will. Volevo solo parlarti. Io... sincerità a tutti i costi? Ho appena passato cinque minuti a guardare l’elenco di tutti quelli che potevo chiamare e tu eri l’unica persona che volevo chiamare, perché mi piaci. Mi piaci un sacco. Penso che tu sia fantastica. Tu sei... più. Sei più intelligente e più divertente e più bella e... insomma... più. Vabbè. Tutto qui. Ciao.» Quando arrivo a casa chiamo papà.
Risponde al primo squillo. «Puoi chiamare a scuola e dire che sto male? Sono dovuto tornare a casa» dico. «Va tutto bene?» «Sì, tutto bene» dico io, ma ho la voce che trema e credo che potrei ricominciare a piangere e lui dice: «Va bene. Chiamo io». Quindici minuti dopo sono stravaccato sul divano del salotto con i piedi sul tavolino. Sto guardando la tv, solo che è spenta. Ho il telecomando nella mano sinistra, ma non ho neanche l’energia di premere quel cavolo di pulsante. Sento la porta del garage che si apre. Papà entra dalla cucina e si siede
accanto a me, abbastanza vicino. «Cinquecento canali» dice dopo un momento «e niente da vedere». «Hai preso una giornata di ferie?» «Posso sempre trovare qualcuno che mi sostituisca» dice lui. «Sempre.» «Sto bene» dico io. «Lo so. Volevo solo stare a casa con te, tutto qui.» Mi esce qualche lacrima, ma papà ha la decenza di non dire niente. Accendo la televisione e troviamo un programma che si chiama Gli yacht più incredibili del mondo dove fanno vedere degli yacht che hanno sopra tipo un campo da golf e roba del genere e ogni volta che fanno vedere una cosa nuova papà dice: «È IN-CRE-DI-BI-LE!» con un tono
sarcastico, anche se in effetti è davvero un po’ incredibile. E poi papà azzera il volume della tv e dice: «Lo conosci il dottor Porter?». E io annuisco. È un tizio che lavora con la mamma. «Loro non hanno bambini, per cui sono ricchi.» Rido. «Però hanno questa barca che tengono a Belmont Harbor, uno di quei pachidermi con armadi di ciliegio importati dall’Indonesia e un letto matrimoniale rotante imbottito di piume di uccelli in via d’estinzione e cose del genere. Io e tua mamma siamo andati a cena sulla barca dei Porter qualche anno fa e nel giro di una cena, giusto un paio d’ore, quella che all’inizio ci sembrava l’esperienza più
lussuosa del mondo alla fine ci sembrava soltanto una barca.» «Immagino che questa storia abbia una morale.» Ride. «Tu sei il nostro yacht, Will. Tutti i soldi che avremmo potuto spendere per una barca, tutto il tempo che avremmo potuto passato a viaggiare per il mondo? Al loro posto abbiamo avuto te. Alla fine lo yacht diventa soltanto una barca. Ma tu... non ti si può comprare con una carta di credito e non sei deducibile dalle tasse.» Si volta verso la televisione e dopo un attimo dice: «Sono così fiero di te che mi sento fiero anche di me stesso. Spero che tu lo sappia». Io annuisco, il groppo alla gola ancora più stretto, mentre guardo la
pubblicità di un detersivo per lavatrici. Dopo un secondo borbotta tra sé: «Credito, persone, consumismo... con queste parole ci si potrebbe fare una battuta, però non mi viene in mente quale». Io dico: «E se non volessi andare alla Northwestern? O se non mi accettassero?». «Be’, allora smetterei di volerti bene» dice lui. Resta serio per un secondo, poi scoppia a ridere e alza il volume della tv. Più tardi decidiamo di fare una sorpresa a mamma facendole trovare il chili di tacchino per cena. Sto tagliando le cipolle quando suona il campanello.
Sono sicuro che sia Tiny e provo questo strano senso di sollievo che si irradia dal mio plesso solare. «Vado io» dico. Passo davanti a papà e corro alla porta. Non è Tiny. È Jane. Mi guarda, le labbra imbronciate. «Qual è la combinazione del mio armadietto?» «Venticinque-due-undici» dico io. Lei mi tira un pugno sul petto. «Lo sapevo! Perché non me lo hai detto?» «Non riuscivo a capire quale fosse la più vera tra tutta una serie di cose vere» rispondo. «Dobbiamo aprire la scatola» mi dice lei. «Mmm» mugugno io. Faccio un passo avanti per chiudermi la porta alle spalle,
ma lei non fa un passo indietro, così adesso ci stiamo quasi toccando. «Il gatto ha un ragazzo» le ricordo. «Il gatto non sono io. Siamo noi, il gatto. Io sono un fisico. E anche tu sei un fisico. Il gatto siamo noi.» «Mmm, va bene» dico io. «Il fisico ha un ragazzo.» «Il fisico in effetti non ha un ragazzo. Il fisico ha lasciato il suo ragazzo al giardino botanico perché lui continuava a parlare del fatto che nel 2016 sarebbe andato alle Olimpiadi e dentro la testa del fisico c’era questa vocina che si chiamava Will Grayson e diceva: E alle Olimpiadi rappresenterai gli Stati Uniti o il Regno di Viscidonia? Così il fisico ha rotto con il suo ragazzo e vuole
che la scatola venga aperta, perché non riesce a smettere di pensare al gatto. Il fisico è disposto anche ad accettare che il gatto sia morto, però deve saperlo.» Ci baciamo. Le sue mani sono gelide sulla mia faccia e sa di caffè e ho ancora nel naso l’odore delle cipolle e ho le labbra secchissime per il freddo. Ed è bellissimo. «La tua opinione professionale di fisico?» chiedo. Sorride. «Io penso che il gatto sia vivo. E cosa dice il mio stimato collega?» «Vivo» dico. Ed è così. Il che rende ancora più strano il fatto che mentre le parlo sento una ferita aperta dentro di me. Pensavo di trovare Tiny alla porta,
pronto a coprirmi di scuse che avrei lentamente accettato. Ma la vita va così. Cresciamo. I pianeti come Tiny si trovano nuove lune. Le lune come me si trovano nuovi pianeti. Jane si stacca da me un secondo e dice: «C’è qualcosa che ha un buon profumo. A parte te, dico». Sorrido. «Stiamo preparando il chili» dico. «Vuoi... vuoi entrare a conoscere mio papà?» «Non vorrei dist...» «No» dico. «È simpatico. Un po’ strano. Però simpatico. Puoi fermarti a cena.» «Mmm, va bene, fammi chiamare i miei.» Resto lì a tremare per un secondo mentre lei parla con sua mamma. «Io
ceno a casa di Will Grayson... Sì, c’è suo papà... sono dottori... sì... va bene, ciao.» Torno dentro. «Papà» dico. «Lei è la mia amica Jane.» Papà emerge dalla cucina con il grembiule con la scritta I chirurghi lo fanno con la mano ferma sopra la camicia e la cravatta. «Bisogna dare credito alle persone per essersi fatte convincere dal consumismo» dice tutto contento di avere trovato la battuta che cercava. Io rido. Jane gli porge la mano con grande classe e dice: «Piacere, dottor Grayson. Sono Jane Turner». «Signorina Turner, è un piacere.» «Va bene se Jane si ferma a cena?» «Ma certo. Jane, ci scuseresti un
attimo?» Papà mi porta in cucina, mi si avvicina e dice sottovoce: «Era questa la causa dei tuoi problemi?». «Strano, ma no» dico io. «Io e Jane siamo... hai capito.» «Siete hai capito, sì» borbotta lui tra sé. E poi dice a voce abbastanza alta: «Jane?». «Sì?» «Che media hai a scuola?» «Sette e mezzo?» Lui mi guarda, arriccia le labbra e annuisce lentamente. «Accettabile» dice, dopodiché sorride. «Papà, non mi serve la tua benedizione» dico io sottovoce. «Lo so» risponde lui. «Ma ho pensato
che ti potesse far piacere comunque.»
capitolo sedici quattro giorni prima del debutto del suo spettacolo tiny mi chiama e mi dice che deve prendersi una giornata di stacco per non impazzire. non è solo perché lo spettacolo è un casino. l’altro will grayson non gli parla più. cioè, gli parla, ma non dice niente. e una parte di tiny è incazzata perché a.w.g. sta «tirando fuori queste stronzate quando manca così poco ad andare in scena» e una parte di lui sembra avere davvero un sacco di paura che ci sia qualcosa che non va.
io: cosa posso fare? sono il will grayson sbagliato. tiny: ho soltanto bisogno di una dose di will grayson. sarò alla tua scuola tra un’ora. sono già per strada. io: che cosa? tiny: mi devi solo dire dov’è, la tua scuola. l’ho cercata sulle mappe di google, ma le indicazioni fanno sempre schifo. e l’ultima cosa di cui ho bisogno oggi è di ritrovarmi nell’iowa alle dieci del mattino. penso che l’idea di “una giornata di stacco per non impazzire” sia stata inventata da gente che non ha la minima idea di cosa voglia dire impazzire. l’idea che la tua mente possa essere
salvata da una pausa di ventiquattr’ore è un po’ come dire che il mal di cuore si può curare con una bella colazione ricca di cereali. le giornate di stacco per non impazzire esistono solo per le persone che hanno il lusso di dire «oggi non voglio pensare a niente» e poi si possono prendere un giorno di vacanza, mentre il resto di noi è costretto a combattere le battaglie di sempre senza che importi per davvero a nessuno, a meno che non decidiamo di portare un fucile a scuola o di rovinare l’appello del mattino con un suicidio. non dico niente del genere a tiny. faccio finta di volerlo qui. non gli faccio capire quanto mi mandi fuori di testa il fatto che veda un pezzo ancora più
grande della mia vita. ho l’impressione che abbia confuso i will grayson. non sono sicuro di essere io quello che lo può aiutare. la cosa si è fatta così intensa... più di quanto fosse con isaac. e non solo perché tiny è reale. non so cosa mi faccia sclerare di più, se il fatto che per lui sono importante o il fatto che lui lo è per me. dico subito a gideon della visita di tiny, soprattutto perché lui è l’unico a scuola a cui abbia veramente parlato di tiny. gideon: wow. è così dolce che ti voglia vedere. io: non ci avevo pensato.
gideon: la maggior parte dei ragazzi farebbe un sacco di strada per un’ora di sesso. ma pochi farebbero un’ora di strada solo per vederti. io: come fai a saperlo? è un po’ strano che gideon sia diventato il mio consulente gay, visto che mi ha detto che la maggior parte delle cose che ha combinato le ha fatte al campo scout estivo prima del nono anno. però credo che abbia visitato abbastanza blog e chat e cose del genere. oh, e poi guarda sempre i programmi dell’hbo. io gli dico di continuo che non sono sicuro che le leggi di sex and the city valgano anche in assenza di sesso e di città, ma poi lui
mi guarda come se avessi tirato delle freccette ai palloncini a forma di cuore che popolano la sua mente, per cui lascio perdere. la cosa divertente è che la maggior parte della scuola - be’, almeno della parte a cui interessa, che non è molto vasta - pensa che gideon e io stiamo insieme, perché ci vedono andarcene in giro insieme tutti gay per i corridoi. però dico questo: a me un po’ non dispiace. perché gideon è veramente carino e veramente gentile e quelli che non lo prendono a botte sembrano trovarlo molto simpatico. per cui, se devo avere un ragazzo ipotetico in questa scuola, potrebbe andarmi molto peggio.
però è strano pensare che gideon e tiny finalmente si incontreranno. è strano pensare a tiny che cammina per i corridoi insieme a me. è come invitare godzilla al ballo di fine anno. non riesco a immaginarmelo... ma poi ricevo un sms che dice che è a due minuti da qui e devo affrontare la realtà. praticamente lascio la lezione di fisica del professor jones a metà di un esperimento. lui tanto non si accorge mai di me, basta che la mia compagna di laboratorio lizzie mi copra. le dico la verità - che il mio ragazzo sta entrando di nascosto a scuola per vedermi - e lei diventa subito mia complice perché, anche se normalmente non farebbe una cosa del genere per me, è dispostissima
a farlo per AMORE. (be’, per AMORE e per i diritti gay: tre hip hip hurrah per le ragazze etero che fanno di tutto per aiutare i ragazzi omosessuali!) l’unica persona che mi sta addosso è maura, che quando spiego la mia storia a lizzie sbuffa una nuvola nera di rabbia. ha cercato di mandare a puttane il mio trattamento del silenzio origliando quello che dicevo agli altri ogni volta che poteva. non so se lo sbuffo sia perché pensa che me lo stia inventando o perché è disgustata dal fatto che me ne freghi dell’esperimento di fisica, o forse è solo gelosa di lizzie, il che è buffo perché lizzie ha dei brufoli così grossi che sembrano punture di ape. ma chissenefrega. maura può sbuffare
quanto le pare. io non reagirò. uscendo non faccio fatica a individuare tiny che ondeggia da un piede all’altro. non ho intenzione di mettermi a limonare con lui nel cortile della scuola, per cui gli concedo un abbraccio da amici (due punti di contatto! solo due!) e gli dico che se qualcuno glielo chiede deve dire che in autunno verrà a vivere qui e sta dando un’occhiata alla scuola. è un po’ diverso dall’ultima volta che l’ho visto: stanco, credo. a parte questo la sua salute mentale sembra perfettamente a posto. tiny: così è qui che avviene la magia? io: solo se consideri una forma di
magia il cieco asservimento ai test standardizzati e alle domande per il college. tiny: ci devo pensare sopra. io: come va lo spettacolo? tiny: quello che manca al coro in voce, lo compensa in energia. io: non vedo l’ora di vederlo. tiny: non vedo l’ora che tu lo veda. quando siamo a metà strada per la mensa suona la campanella del pranzo. all’improvviso c’è gente tutto attorno a noi e guardano tiny come si guarderebbe uno che ha deciso di andare da una classe all’altra a dorso di cavallo. l’altro giorno stavo scherzando con gideon sul fatto che il motivo per cui la
scuola aveva dipinto di grigio gli armadietti è permettere ai ragazzi come me di confondersi con lo sfondo e attraversare in sicurezza i corridoi. ma con tiny non è proprio possibile. tutte le teste si voltano. io: attiri sempre tutta questa attenzione? tiny: così tanta no. credo che qui la gente noti di più la mia straordinaria enormità. ti dispiace se ci teniamo per mano? la verità è che mi dispiace. ma visto che lui è il mio ragazzo, la risposta dovrebbe essere che non mi dispiace per niente. probabilmente mi porterebbe in classe in braccio, se glielo chiedessi
gentilmente. gli prendo la mano, che è grossa e scivolosa. ma mi sa che non riesco a nascondere la preoccupazione che provo, perché lui mi dà un’occhiata e poi mi lascia la mano. tiny: lascia stare. io: non sei tu. è solo che non sono il tipo che va in giro per i corridoi mano nella mano con qualcuno. neanche se tu fossi una ragazza. neanche se fossi una cheerleader tettona. tiny: ma io sono stato una cheerleader tettona. mi fermo e lo guardo. io: stai scherzando.
tiny: solo per qualche giorno. ho fatto crollare la piramide. facciamo qualche altro passo. tiny: immagino che infilarti la mano nella tasca dietro dei jeans sia fuori questione? io: *colpo di tosse* tiny: era una battuta. io: posso almeno offrirti il pranzo? magari c’è addirittura lo stufato! devo continuare a ricordare a me stesso che è questo quello che volevo, che è questo quello che tutti dovrebbero volere. ecco qui un ragazzo che vuole essere affettuoso con me, un ragazzo che salta in auto e fa tutta questa strada per
vedermi, un ragazzo che non ha paura di quello che pensano gli altri quando ci vedono insieme, un ragazzo che pensa che io possa migliorare la sua salute mentale. una delle cuoche della mensa scoppia letteralmente a ridere quando tiny va in visibilio per le empanadas che servono per festeggiare la settimana della tradizione latino-americana, o forse è il mese della tradizione latino-americana. lo chiama “tesoro” mentre lo serve, il che è abbastanza buffo perché io ho passato gli ultimi tre anni a cercare di conquistarla in modo che la smettesse di darmi la fetta di pizza più piccola della teglia. quando arriviamo al tavolo, derek e
simon sono già lì. manca solo gideon. dato che non li ho avvisati del nostro ospite speciale, quando ci avviciniamo assumono un’espressione sorpresa e pietrificata. io: derek e simon, lui è tiny. tiny, loro sono derek e simon. tiny: sono felicissimo di conoscervi! simon: ehmmmm... derek: piacere mio. chi sei? tiny: sono il ragazzo di will. vengo da evanston. adesso lo guardano come se fosse una creatura magica uscita da world of warcraft. derek è divertito in un modo amichevole. simon guarda tiny, poi guarda me, poi guarda tiny, in un modo
che può solo significare che si sta chiedendo come fanno a fare sesso un tizio così grosso e un tizio così secco. sento una mano sulla spalla. gideon: eccoti qui! gideon sembra l’unica persona della scuola a non essere sconvolta dall’aspetto di tiny. senza perdere un colpo allunga l’altra mano verso di lui. gideon: tu devi essere tiny. tiny guarda la mano che gideon ha sulla mia spalla prima di stringere quella che gli ha offerto. non sembra particolarmente felice quando dice
tiny: ...e tu devi essere gideon. la sua stretta deve essere un po’ più decisa del solito, perché gideon fa una smorfia, dopodiché si alza per portare al tavolo una sedia in più e offre a tiny il posto dove di solito si siede lui. tiny: ma quanto è carino qui? be’, direi poco, penso io. l’odore di empanadas di manzo mi fa sentire come se fossi chiuso dentro una stanzetta surriscaldata e piena di cibo per cani. temo che simon sia sul punto di dire qualcosa di sbagliato e derek ha l’aria di uno che sta per postare tutto quello che succede sul suo blog. gideon inizia a fare qualche domanda amichevole a tiny,
che gli risponde a monosillabi. gideon: com’era il traffico per venire qui? tiny: normale. gideon: la nostra scuola assomiglia molto alla tua? tiny: un po’. gideon: mi dicono che stai mettendo su un musical. tiny: già. dopo un po’ gideon va a prendere un dolce, il che mi consente di sporgermi verso tiny e chiedergli io: perché lo stai trattando come se fosse uno che ti ha lasciato? tiny: non è vero!
io: non lo conosci neanche. tiny: conosco quelli come lui. io: e come sarebbero quelli come lui? tiny: i tipetti carini. sono veleno. penso che sappia di avere esagerato, perché aggiunge immediatamente tiny: però sembra simpatico. si guarda attorno. tiny: qual è maura? io: due tavoli a sinistra della porta. seduta da sola. agnellino al macello. scarabocchia su un blocco. come se si sentisse osservata, maura solleva lo sguardo verso di noi, poi
abbassa la testa e si rimette a scrivere ancora più furiosamente. derek: com’è l’empanada di manzo? in tutti gli anni che ho passato qui tu sei il primo che vedo finirla. tiny: non è male, se ti piacciono i piatti piuttosto saporiti. simon: e voi due da quanto tempo state... cioè... insieme. tiny: non saprei esattamente. più o meno quattro settimane, due giorni e diciotto ore. simon: così era colpa tua. tiny: per cosa? simon: per colpa tua abbiamo quasi perso la gara di matematletica. tiny: se è così, mi dispiace molto.
simon: be’, sai come si dice. derek: simon? simon: i gay mettono sempre l’uccello prima della matematica. io: in tutta la storia del mondo nessuno ha mai detto niente del genere. derek: sei solo arrabbiato perché quella ragazza di naperville... simon: lascia perdere! derek: non ti si è seduta in braccio quando glielo hai chiesto. simon: l’autobus era pieno! gideon torna portando biscotti per tutti. gideon: è un’occasione speciale. che cosa mi sono perso? io: storie di uccelli e matematica.
gideon: non capisco. io: appunto. tiny sta iniziando a friggere. non tocca nemmeno il suo biscotto. è un biscotto morbido, con le scaglie di cioccolato. a questo punto dovrebbe già essere nel suo apparato digerente. se tiny perde l’appetito, non c’è proprio verso che riusciamo a sopravvivere al resto della giornata scolastica. non ho la minima voglia di andare in classe... perché dovrebbe averla tiny? se vuole stare con me, io dovrei stare con lui, e questa scuola non me lo permetterà mai. io: andiamocene.
tiny: ma sono appena arrivato. io: hai appena conosciuto le uniche persone con cui interagisco. hai assaggiato la nostra alta cucina. se vuoi ti posso far vedere la bacheca dei trofei mentre usciamo, così potrai erudirti sui successi sportivi di alunni che ormai sono abbastanza vecchi da soffrire di disfunzioni erettili, perdite di memoria e morte. io non riesco proprio a essere affettuoso con te in questo posto, ma se andiamo in un posto più privato sarà tutta un’altra cosa. tiny: gli uccelli prima della matematica. io: sì, gli uccelli prima della matematica. anche se oggi ho già avuto l’ora di mate. la marinerò
retroattivamente per stare con te. derek: vai! vai! tiny sembra molto contento della piega che hanno preso le cose. tiny: ti avrò tutto per me? è una cosa piuttosto imbarazzante da ammettere di fronte ad altre persone, per cui mi limito ad annuire. raccogliamo i vassoi e salutiamo gli altri. gideon sembra un po’ deluso, ma ha un’aria sincera quando dice a tiny che spera che avremo altre occasioni per stare insieme tutti quanti. tiny dice che lo spera anche lui, ma non sembra crederci molto. mentre stiamo per uscire dalla mensa,
tiny dice che deve fare un’altra tappa. tiny: devo fare una cosa. io: il bagno è in fondo al corridoio a sinistra. ma non è quella la sua destinazione. sta andando dritto verso il tavolo di maura. io: cosa stai facendo? noi non le parliamo. tiny: tu forse no... però io ho un paio di cose da dirle. maura ci guarda. io: fermati. tiny: fatti da parte, grayson. so cosa
sto facendo. lei mette giù la penna e chiude il blocco con un gesto molto teatrale. io: non farlo, tiny. ma lui raggiunge maura e le incombe sopra. la montagna è venuta da maura, e ha qualcosa da dirle. c’è un lampo di nervosismo negli occhi di tiny prima che inizi a parlare. prende un bel respiro. lei lo guarda con un’inespressività studiatissima. tiny: volevo soltanto ringraziarti. sono tiny cooper e sto con will grayson da quattro settimane, due giorni e diciotto ore. se con lui non ti fossi comportata da
falsa amica malevola, egoista, bugiarda e vendicativa, noi non ci saremmo mai incontrati. il che dimostra che, se cerchi di rovinare la vita a qualcuno, gliela migliori e basta. solo che tu non ne farai più parte. io: tiny, basta. tiny: credo che debba sapere cosa si perde, will. credo che debba sapere quanto sei felice... io: BASTA! lo sente un sacco di gente. di sicuro lo sente tiny, perché la smette. e di sicuro lo sente maura, perché smette di guardarlo con la sua aria inespressiva e inizia a guardare me con la stessa aria inespressiva. in questo momento sono
arrabbiatissimo con tutti e due. prendo tiny per mano, ma questa volta è per trascinarlo via. maura fa un sorrisetto compiaciuto, riapre il suo blocco e ricomincia a scrivere. io arrivo alla porta, lascio andare la mano di tiny, torno al tavolo di maura, prendo il suo blocco e strappo la pagina su cui sta scrivendo. non la leggo nemmeno. la strappo via e la accartoccio e poi le getto il blocco sul tavolo, facendo cadere la lattina di diet coke. non dico una parola. me ne vado e basta. sono così arrabbiato che non riesco a parlare. tiny è dietro di me e dice tiny: cosa c’è? cosa ho fatto? aspetto di essere fuori dall’edificio.
aspetto di essere nel parcheggio. aspetto che mi abbia portato alla sua auto. aspetto di poter aprire la bocca senza mettermi a urlare. e poi dico io: non avresti dovuto farlo. tiny: perché? io: PERCHÉ? perché io non le parlo. perché sono riuscito a evitarla per un mese e tu adesso mi hai trascinato da lei e l’hai fatta sentire come se mi importasse di lei. tiny: aveva bisogno di una lezione. io: quale lezione? che se cerca di rovinare la vita a qualcuno riesce solo a migliorarla? ma che bella lezione, tiny! adesso potrà provare a rovinare la vita anche ad altre persone, perché almeno
avrà la soddisfazione di sapere che sta facendo loro un favore. magari può anche mettere su un’agenzia di incontri. per noi ha funzionato, no? tiny: smettila. io: smettila di fare cosa? tiny: smettila di parlarmi come se fossi un idiota. non sono un idiota. io: lo so che non sei un idiota, ma di sicuro hai fatto una cosa idiota. non ha ancora nemmeno acceso il motore. siamo ancora fermi nel parcheggio. tiny: questa giornata non doveva andare così. io: be’, sai una cosa? capita spesso che non puoi decidere tu come andrà la
giornata. tiny: smettila. per favore. voglio che oggi sia una bella giornata. avvia il motore. tocca a me prendere un bel respiro. chi diavolo vuole essere quello che dice a un bambino che babbo natale non esiste? è la verità, no? però se la dici resti comunque uno stronzo. tiny: andiamo in un posto che ti piace. dove vuoi andare? portami in un posto che vuole dire qualcosa per te. io: tipo cosa? tiny: tipo... non lo so. Io, se ho bisogno di sentirmi meglio, vado da solo al centro commerciale. non so perché, ma vedere tutte quelle cose mi rende
felice. probabilmente è il design. non devo neanche comprare qualcosa. mi basta vedere tutte quelle persone insieme. vedere tutte quelle cose che p o t re i comprare, tutti i colori, una corsia dopo l’altra, certe volte è quello che mi serve. per jane è un negozio di musica alternativa dove le piace guardare i vecchi dischi di vinile mentre io guardo i cd delle boy-band a due dollari il pezzo e cerco di decidere qual è il più carino della band, oppure per l’altro will grayson c’è questo parco della nostra città dove giocano tutte le squadre della little league e a lui piace la panchina perché quando non c’è nessun altro è un posto tranquillissimo. quando non c’è nessuna partita puoi
restare seduto lì ed esistono solo le cose successe nel passato. penso che tutti abbiano un posto del genere. devi averlo anche tu. ci penso sopra per un secondo, ma credo che se avessi un posto del genere lo saprei subito. per me nessun posto importa davvero. non mi è mai nemmeno venuto in mente che avrei dovuto avere un posto con un significato speciale. scuoto il capo. io: niente. tiny: dai, ci deve essere un posto del genere. io: non c’è, va bene. solo casa mia, la mia stanza, tutto lì. tiny: va bene... allora dove sono le
altalene più vicine? io: mi stai prendendo in giro? tiny: no, ci saranno pure delle altalene qui in zona. io: alle scuole elementari, credo. ma ci sono ancora i bambini, a scuola. se ci vedono lì penseranno che vogliamo rapire qualcuno. per me non ci sarebbe problema, ma mi sa che tu saresti processato come adulto. tiny: va bene, e a parte le elementari? io: credo che i miei vicini abbiano un’altalena. tiny: i genitori lavorano? io: penso di sì. tiny: e i figli saranno ancora a scuola. perfetto! dimmi la strada.
e così finiamo per parcheggiare di fronte a casa mia ed entrare illegalmente nel giardino dei miei vicini. l’altalena è abbastanza brutta, ma almeno è fatta per dei ragazzini e non per dei poppanti. io: non hai intenzione di sedertici, vero? ma lui lo fa e giuro che la struttura di metallo si piega un po’. mi indica l’altalena accanto alla sua. tiny: vieni qui. saranno dieci anni che non vado in altalena. lo faccio solo per farlo stare zitto un secondo. nessuno dei due va davvero avanti e indietro: non credo che
reggerebbe. ce ne restiamo soltanto seduti con i piedi penzoloni. tiny ruota per avermi di fronte. ruoto anch’io, e poi appoggio i piedi per terra per evitare che la catena torni alla posizione normale. tiny: meglio? e io non riesco a evitare di dire io: meglio di cosa? tiny scoppia a ridere e scuote il capo. io: cosa c’è? perché scuoti il capo? tiny: niente. io: dimmelo. tiny: è divertente.
io: COSA è divertente? tiny: tu. e io. io: sono contento che lo trovi divertente. tiny: e io vorrei che tu lo trovassi più divertente. non capisco neanche più di cosa stiamo parlando. tiny: lo sai qual è una grande metafora dell’amore? io: ho la sensazione che tu stia per dirmelo. lui si volta dall’altra parte e fa un tentativo di andare in alto con l’altalena, che però si lamenta così tanto che tiny si deve fermare. torna a voltarsi dalla mia
parte. tiny: la bella addormentata. io: la bella addormentata? tiny: sì, perché devi attraversare questo bosco fittissimo e pieno di spine per arrivare alla bella, e anche allora, quando ci arrivi, devi ancora svegliarla. io: quindi io sarei un bosco di spine? tiny: e la bella che non è ancora sveglia del tutto. non sottolineo che tiny non assomiglia granché a quello che le ragazzine immaginano quando sentono pronunciare le parole principe azzurro. io: ci sta che tu la veda così. tiny: perché?
io: be’, la tua vita è un musical. letteralmente. tiny: mi senti cantare, in questo momento? quasi. mi piacerebbe tanto vivere nel suo mondo di musical e cartoni animati, dove le streghe come maura vengono fatte scappare con una parola eroica e tutte le creature della foresta sono felici quando due ragazzi gay camminano per i prati mano nella mano e gideon è il corteggiatore bellimbusto che sai già che la principessa non sposerà perché il suo cuore appartiene alla bestia. sono sicuro che è un mondo adorabile, dove succedono cose del genere. un mondo ricco, viziato, pieno di colori. magari un
giorno andrò a vederlo, ma ne dubito. i mondi come questo non concedono visti ai ragazzi incasinati come me. io: non capisco perché uno come te voglia fare tutta questa strada per stare con uno come me. tiny: adesso basta! io: eh? tiny: continuiamo a ripetere la stessa conversazione. ma se tu continui a concentrarti su quanto ti vanno male le cose, non capirai mai che potrebbero andarti alla grande. io: facile dirlo per te! tiny: in che senso? io: nel senso che è così. facile: senza nessuna difficoltà. dirlo: esprimere a
voce, a volte fino alla nausea. per te: il contrario di per me. le cose ti vanno così bene che non capisci che quando ti vanno male non è per scelta. tiny: questo lo so. non intendevo dire... io: sì? tiny: ho capito. io: no, tu NON hai capito. perché per te è tutto facile. adesso l’ho fatto arrabbiare sul serio. si alza dall’altalena e mi si piazza davanti. ha una vena che pulsa sul collo. sembra infuriato e triste insieme. tiny: SMETTILA DI DIRMI CHE PER ME È TUTTO FACILE! ma lo sai almeno di cosa stai parlando? perché
sono anch’io una persona. e ho anch’io dei problemi. e anche se non sono i tuoi problemi, sono comunque problemi. io: tipo? tiny: magari non l’hai notato, ma non sono proprio un esempio di bel ragazzo. in effetti si potrebbe dire che sono l’esatto opposto. dire, hai presente? nel senso di esprimere a voce, a volte fino alla nausea. credi che ci sia un solo minuto della giornata in cui non sono consapevole di quanto sono grosso? credi che passi un solo minuto senza che io pensi a come mi vedono gli altri? anche se è una cosa su cui non ho nessun controllo? non fraintendermi: a me piace il mio corpo. ma non sono tanto idiota da pensare che piaccia a tutti gli altri. la
cosa che mi fa male sul serio è che la gente non vede altro di me. fin da quando ero piccolo, per quanto possa esserlo stato io. ehi, tiny, vuoi giocare a football? ehi, tiny, quanti hamburger ti sei mangiato oggi? ehi, tiny, ma riesci a vedertelo l’uccello, là sotto? ehi, tiny, devi entrare nella squadra di basket, che ti piaccia o no. però non provare a guardarci nello spogliatoio! ti sembra facile, will? sto per dire qualcosa, ma lui solleva una mano. tiny: sai cosa? io sono in pace con me stesso per quanto riguarda il mio corpo, ed ero gay molto prima di sapere cosa fosse il sesso. è quello che sono, e mi
sta benissimo. non voglio essere magro o di una bellezza convenzionale o etero o qualcos’altro. no, quello che voglio davvero, e non ottengo mai, è di essere apprezzato. sai cosa vuol dire lavorare duro per rendere tutti felici e non avere nessuno che se ne rende conto? mi faccio il culo per cercare di mettere insieme l’altro will grayson e jane: niente ringraziamenti, solo incazzature. scrivo tutto questo musical che parla di amore e il personaggio principale - a parte me, chiaramente - è phil wrayson, che ha bisogno di capire un tot di cose ma in fin dei conti è un tipo fantastico. e will lo capisce? no. lo fa incazzare. faccio tutto quello che posso per essere un buon ragazzo per te: niente
ringraziamenti, solo incazzature. cerco di mettere in piedi questo musical per creare qualcosa, per dimostrare che abbiamo tutti quanti qualcosa per cui cantare: niente ringraziamenti, solo incazzature. questo musical è un regalo, will. il mio regalo al mondo. non parla di me. parla di quello che ho da condividere con gli altri. c’è una differenza. io la vedo, ma ho paura di essere l’unico a vederla. pensi che per me sia tutto facile, will? non vedi davvero l’ora di metterti nei miei pantaloni taglia XXXL? perché tutte le mattine, quando mi sveglio, io devo convincere me stesso che sì, entro la fine della giornata riuscirò a fare qualcosa di buono. è tutto quello che
chiedo: riuscire a fare qualcosa di buono. e non per me stesso - piccolo bastardo testa di cazzo lamentoso che tra l’altro mi piace un sacco - ma per i miei amici, per gli altri. io: ma perché io? cioè, cosa vedi in me? tiny: tu hai un cuore, will. e ogni tanto lo lasci intravedere anche agli altri. io vedo questo in te. e vedo che hai bisogno di me. scuoto il capo. io: ma non capisci? io non ho bisogno di nessuno. tiny: questo vuole soltanto dire che hai ancora più bisogno di me.
adesso ho capito. io: tu non sei innamorato di me. sei innamorato del mio bisogno. tiny: chi ha detto di essere innamorato di qualcuno o qualcosa? io ho detto solo che mi piaci un sacco. si ferma. fa una pausa. tiny: va sempre così. con qualche variazione, ma va sempre così. io: mi dispiace. tiny: e dicono sempre mi dispiace. io: non posso farlo, tiny. tiny: puoi, ma non lo farai. non lo farai e basta. è come se non dovessi lasciarlo,
perché lui ha già avuto questa conversazione dentro la sua testa. dovrei sentirmi sollevato perché non devo dire niente, e invece mi sento solo peggio. io: non è colpa tua. è solo che io non riesco a sentire niente. tiny: davvero? davvero non senti niente in questo momento? niente di niente? vorrei dirgli: nessuno mi ha mai detto cosa fare in un momento come questo. lasciarsi non dovrebbe essere indolore se non hai mai imparato a tenerti qualcosa? tiny: adesso vado.
e io invece resto. resto su questa altalena mentre lui se ne va. resto in silenzio mentre lui sale in auto. resto fermo mentre sento il motore che parte e poi si allontana. resto in errore, perché non so come attraversare il bosco di spine della mia mente per raggiungere quello che dovrei fare in questo momento. resto ancora, e ancora, e ancora, finché non ne morirò. devono passare minuti prima che riesca ad ammettere che sì, anche se mi dico che non sento nulla, è una bugia. vorrei dire che sento rimorso o rimpianto o anche che mi sento in colpa. ma nessuna di queste parole mi sembra abbastanza. quello che sento è vergogna. vergogna nuda e cruda. non voglio
essere quello che sono. non voglio essere la persona che ha fatto quello che ho appena fatto io. non riguarda nemmeno tiny. sono orribile. sono senza cuore. ho paura che tutte quelle cose siano vere. torno di corsa a casa mia. sto iniziando a singhiozzare. non ci penso nemmeno, ma il mio corpo sta cadendo a pezzi. le mani mi tremano così tanto che lascio cadere le chiavi prima di riuscire a infilarle nella porta. la casa è vuota. io sono vuoto. provo a mangiare. provo a strisciare a letto. niente funziona. sento qualcosa. sento tutto. e devo sapere che non sono solo. così tiro fuori il telefono.
non ci penso neppure. digito i numeri e sento lo squillo e appena rispondono urlo io: TI VOGLIO BENE. MI SENTI? TI VOGLIO BENE! lo sto urlando e la mia voce sembra arrabbiata e così spaventata e così patetica e così disperata. all’altro capo del telefono mia madre mi sta chiedendo cosa c’è che non va e dove sono e cosa succede e io le dico che sono a casa e che è tutto un casino e lei dice che sarà a casa tra dieci minuti, ce la faccio a resistere per dieci minuti? e io vorrei dirle che ce la farò, perché è quello che vuole sentire, ma poi mi rendo conto che forse vuole sentire la verità, così le dico
che sento delle cose, le sento davvero, e lei mi dice ma certo, hai sempre avuto questi sentimenti, ed è questo che a volte ti rende così difficile la vita. già ascoltare la sua voce mi fa sentire un po’ meglio, e mi rendo conto che sì, apprezzo quello che sta dicendo, e apprezzo quello che sta facendo, e ho bisogno di farglielo sapere. anche se non lo dico subito perché penso che la farebbe soltanto preoccupare di più, ma quando torna a casa glielo dico e lei dice che lo sa. le racconto un po’ di tiny e lei dice che forse ci stavamo mettendo addosso troppa pressione e che non deve essere per forza amore subito, e neanche dopo. vorrei chiederle com’era con mio padre,
e quando è stato che tutto si è trasformato in odio e tristezza, ma forse non lo voglio sapere davvero, non ora. mamma: il bisogno non è mai una buona base per una relazione. deve esserci molto di più. è bello parlare con lei, ma è anche strano, perché lei è mia madre, e io non voglio essere uno di quei ragazzi che pensano che la loro mamma sia la loro migliore amica. quando mi sono ripreso a sufficienza la scuola è finita da un pezzo e penso che posso collegarmi e vedere se gideon è online. poi mi viene in mente che invece posso mandargli un sms. poi mi viene in mente che invece lo posso chiamare. alla fine mi viene in
mente che lo posso chiamare e chiedergli se gli va di fare qualcosa. perché lui è mio amico ed è così che fanno gli amici. lo chiamo, lui risponde. ho bisogno di lui, lui risponde. vado a casa sua e gli racconto quello che è successo, e lui risponde. non è come era con maura, che voleva sempre prendere la strada più buia. non è come era con tiny, perché con lui sentivo tutte quelle aspettative di essere un bravo ragazzo. qualsiasi cosa voglia dire. no, gideon è pronto a credere sia il meglio sia il peggio di me. in altre parole: la verità. quando finiamo di parlare, mi chiede se chiamerò tiny. gli dico che non lo so. decido cosa fare più tardi. sono
online e vedo che c’è anche lui. non credo che possiamo recuperare il nostro rapporto, ma almeno gli voglio dire che, anche se si sbagliava su di me, non si sbagliava su se stesso. cioè, qualcuno dovrebbe cercare di fare del bene al mondo. così ci provo. 20:15 willupleasebequiet: bluejeanbaby? willupleasebequiet: tiny? 20:18 willupleasebequiet: ci sei? 21:33 willupleasebequiet: ci sei?
22:10 willupleasebequiet: ti prego. 01:03 willupleasebequiet: ci sei? willupleasebequiet: ci sei? willupleasebequiet: ci sei? willupleasebequiet: ci sei? willupleasebequiet: ci sei?
capitolo diciassette Tre giorni prima dello spettacolo io e Tiny ci parliamo mentre aspettiamo l’inizio della lezione di algebra, ma non c’è niente dentro le nostre parole. Si siede accanto a me e dice: «Ciao, Grayson» e io dico: «Ciao» e lui dice: «Come butta?» e io dico: «Niente di che. Tu?» e lui dice: «Niente di che. Lo spettacolo spacca di brutto» e io dico: «Chiaro» e lui dice: «Ti sei messo con Jane, eh?» e io dico: «Sì, tipo» e lui dice: «Figo» e io dico: «Sì. Come va con l’altro Will Grayson?» e lui dice:
«Bene» ed è tutto. Francamente parlarci è peggio che non parlarci. Mi fa sentire come se stessi affogando nell’acqua tiepida. Jane è accanto al mio armadietto con le mani dietro la schiena quando arrivo lì alla fine della prima ora, e quando la raggiungo c’è questo momento imbarazzato ma non sgradevole del tipo forse-dovremmo-baciarci, o almeno io penso che sia un momento del genere, ma poi lei dice: «Peccato per Tiny, eh?». «Cosa?» chiedo. «Lui e l’altro Will Grayson. Kaput.» Piego la testa di lato, perplesso. «No, mi ha appena detto che va tutto bene.
Gliel’ho chiesto ad algebra.» «È successo ieri, almeno secondo Gary e Nick e le altre ventitré persone che me ne hanno parlato. Su un altalena, a quanto pare. Bella metafora, eh?» «Ma allora perché non me lo ha detto?» e conosco già la risposta mentre ancora sto parlando. Jane mi prende la mano e si alza in punta di piedi per parlarmi all’orecchio «Ehi» dice. Io la guardo cercando di fare finta che non me ne frega niente. «Ehi» dice ancora lei. «Ehi» dico io. «Rimetti le cose a posto con lui, va bene? Parlagli, Will. Non so se l’hai notato, ma per te va tutto molto meglio quando parli con le persone.»
«Vuoi venire da me dopo la scuola?» chiedo. «Certo.» Sorride, poi fa una mezza piroetta sul posto e se ne va. Fa qualche passo, poi si volta e dice: «Parla. Con. Tiny». Per un po’ me ne resto vicino all’armadietto. Anche dopo che è suonata la campanella. So perché non me lo ha detto: non è perché gli sembra strano che per la prima volta nella storia dell’umanità lui è single e io sto (tipo) con qualcuno. Ha detto che con l’altro Will Grayson andava tutto bene perché io me ne frego. Tiny può anche ignorarti quando è innamorato. Ma quando Tiny Cooper
mente su una pena d’amore, il contatore Geiger ha superato il punto di guardia. Le radiazioni sono a mille. L’amicizia è morta. Quel giorno dopo la scuola Jane è a casa mia, seduta di fronte a me dall’altro lato del tabellone dello Scarabeo. Io s c r i v o consacrare, che è un’ottima parola ma le dà anche la possibilità di comporne una da punteggio triplo. «Oddio, ti amo» dice lei, e deve essere più o meno la verità perché se l’avesse detto una settimana fa non ci avrei pensato sopra più di tanto e adesso invece resta nell’aria per sempre, finché alla fine lei non fa esplodere quella bolla di imbarazzo dicendo: «Che tra
l’altro sarebbe un po’ una gaffe, con uno con cui ti sei appena messa! Cavoli, che imbarazzo!». Dopo un momento di silenzio, insiste: «E visto che tanto siamo già imbarazzati: noi stiamo insieme?». Quelle parole mi ribaltano un po’ lo stomaco e dico: «Possiamo stare noninsieme?». Lei sorride e compone la parola atterrito e guadagna trentasei punti. È tutto assolutamente sconvolgente. Le sue scapole sono sconvolgenti. Il suo amore appassionatamente ironico per i serial televisivi degli anni Ottanta è sconvolgente. Il modo in cui ride fortissimo alle mie battute è sconvolgente.
E tutto questo rende ancora più sconvolgente il fatto che Jane non riempia il vuoto lasciato dall’assenza di Tiny. Per essere del tutto onesti, quell’assenza l’avevo già sentita il semestre scorso, quando lui è diventato presidente della GSA e io sono entrato nel mio Gruppo di Amici. Probabilmente è per questo che ho scritto la lettera al direttore e l’ho firmata. Non perché volevo che la scuola sapesse che l’avevo scritta io, ma perché volevo che lo sapesse Tiny. Il giorno dopo mamma mi lascia a scuola presto. Io entro e infilo un biglietto nell’armadietto di Jane. Ormai
è diventata un’abitudine. Sono sempre solo una riga o due che ho trovato nella gigantesca antologia di poesia che usava il mio prof dei primi due anni. Ho detto che non sarei stato il tipo di ragazzo che le legge delle poesie, e non lo sono, ma credo di essere il tipo di bastardo sdolcinato che infila dei versi poetici nelle sue mattine. Quelli di oggi: Io ti vedo meglio al buio / non mi serve una luce. Emily Dickinson. E poi mi piazzo al mio posto nell’aula di algebra con venti minuti di anticipo. Cerco di studiare un po’ per chimica, ma ci rinuncio nel giro di venti secondi. Tiro fuori il cellulare e controllo la mail. Niente. Continuo a guardare la
sedia vuota di Tiny, la sedia che lui riempie con una completezza inimmaginabile per chiunque altro. Decido di scrivergli una mail e mi metto a digitarla sul tastierino del cellulare. Tanto per ammazzare il tempo. Continuo a usare parole lunghe per metterci di più. non è che io senta qualche urgente desiderio di essere amici, ma vorrei che potessimo essere o una cosa o l’altra. pensandoci razionalmente, so che la tua dipartita dalla mia esistenza è una benedizione di valore incalcolabile, che per la maggior parte del tempo non sei altro che un fardello (notevole) che mi porto a spasso e che
evidentemente non ti sono mai piaciuto. mi sono sempre lamentato di te e della tua generica vastità, ma adesso mi manca. tipico dei ragazzi, diresti tu. non sanno cosa hanno finché non l’hanno perso. e forse hai ragione, tiny. mi dispiace per will grayson. per tutti e due i will grayson. Finalmente suona la prima campanella. Salvo la mail come bozza. Tiny si siede accanto a me e dice: «Ciao, Grayson» e io dico: «Ciao, come butta?» e lui dice: «Alla grande. Oggi ci sono le prove costumi» e io dico: «Figo» e lui dice: «E a te come va?» e io dico: «La tesina di inglese mi sta uccidendo» e lui dice: «Sì, i miei voti
stanno andando a picco» e io dico: «Già» e poi suona la seconda campanella e noi rivolgiamo la nostra attenzione al professor Applebaum. Quattro ore dopo. Sono in mezzo alla folla di persone che sta scappando dalla lezione di fisica della quinta ora quando vedo Tiny passare davanti alla finestra. Si ferma, si volta con un gesto teatrale verso la porta e mi aspetta. «Ci siamo lasciati» taglia corto. «L’ho saputo. Grazie per avermelo detto... dopo averlo detto a tutti gli altri.» «Sì, be’» dice lui. Gli altri ci passano accanto come se fossimo un coagulo di sangue nell’arteria del corridoio. «Le
prove finiranno tardi. Dopo la prova costumi facciamo una prova completa. Però ti andrebbe di andare a mangiare insieme? Tipo all’Hot Dog Palace.» Rifletto un momento, pensando alla mail non inviata che ho nella cartella bozze e all’altro Will Grayson e a Tiny sul palco che mi dice la verità alle spalle e poi dico: «Non credo proprio. Sono stanco di essere il tuo piano B, Tiny». La cosa naturalmente non lo scalfisce. «Be’, allora mi sa che ci rivedremo per lo spettacolo.» «Non so se avrò tempo di venirci. Ci proverò.» È difficile capire cosa sta pensando Tiny, ma credo di aver segnato un punto.
Non so esattamente per quale motivo sto cercando di farlo stare di merda, ma è quello che voglio. Sto andando a cercare Jane al suo armadietto quando lei mi arriva alle spalle e dice: «Possiamo parlare un minuto?». «Possiamo parlare anche per un miliardo di minuti.» Le sorrido. Ci infiliamo nella classe di spagnolo vuota. Lei gira una sedia e ci si piazza sopra con lo schienale a farle da scudo. Porta una maglietta attillata sotto una giacca da marinaio che adesso si toglie ed è bellissima, tanto bella che mi chiedo ad alta voce se non possiamo parlare a casa mia.
«A casa tua mi distraggo.» Solleva un sopracciglio e sorride, ma capisco che non è un sorriso sentito. «Ieri hai detto che stavamo non-insieme come se non fosse niente di che e io mi rendo conto che è passata solo una settimana ma io non voglio stare non-insieme a te. Voglio essere la tua ragazza oppure no e direi che a questo punto dovresti essere pronto a prendere almeno una decisione temporanea su questo argomento. Perché io so di essere pronta.» Abbassa lo sguardo per un secondo e io noto che facendosi la riga al centro dei capelli le è venuto una specie di zigzag e prendo fiato per parlare ma poi lei dice: «E sappi che non sarò devastata in nessuno dei due casi. Non
sono quel tipo di persona. È solo che penso che se non dici la cosa più sincera, certe volte questa cosa non diventa mai vera, e io...» dice, ma poi io sollevo un dito perché ho bisogno di capire la cosa che ha appena detto e lei parla troppo veloce perché riesca a starle dietro. Tengo la mano alzata e intanto penso se non dici la cosa più sincera, non diventa mai vera. Le appoggio le mani sulle spalle. «Mi sono appena reso conto di una cosa. Tu mi piaci davvero un sacco. Sei fantastica. E io voglio essere il tuo ragazzo per la cosa che hai appena detto e anche perché quella maglietta mi fa venire voglia di portarti a casa subito e farti delle cose innominabili mentre
guardiamo dei video di Sailor Moon. Ma... ma... ma hai assolutamente ragione sul dire la cosa più sincera. Penso che se tieni la scatola chiusa troppo a lungo uccidi il gatto. E - dio, spero che non la prenderai sul personale - io amo il mio migliore amico più di chiunque altro al mondo.» Lei mi guarda con un’espressione confusa. «È così. Io amo Tiny Cooper, cazzo.» Jane dice: «Mmm, va bene. Mi stai chiedendo di essere la tua ragazza o mi stai dicendo che sei gay?». «La prima che hai detto. Quella della ragazza. Però adesso devo trovare Tiny.» Mi alzo in piedi e la bacio sullo
zigzag che ha in testa e poi schizzo via. Lo chiamo mentre attraverso di corsa il campo da calcio, premendo il tasto 1 per la chiamata veloce. Non risponde, ma penso di sapere dove pensa che io stia andando, perciò ci vado. Quando vedo il parco sulla mia sinistra rallento fino a una camminata veloce. Sto ansimando e le spalle mi bruciano sotto le bretelle dello zaino. Tutto dipende dal fatto che lui sia sulla panchina ed è così improbabile che vada lì tre giorni prima della prima dello spettacolo che mentre cammino inizio a sentirmi un idiota: il suo telefono è spento perché è alle prove e io sto c o r r e nd o qui invece di correre all’auditorium e i miei polmoni non sono
stati progettati per questo. Rallento ancora di più quando raggiungo il parco, un po’ perché sono senza fiato e un po’ perché finché non vedo la panchina lui è lì e non è lì. Guardo una coppia che cammina sul prato sapendo che possono vedere la panchina e cercando di capire dal loro sguardo se vedono un gigante seduto sulla panchina dei battitori di questo campo da baseball della Little League. Ma i loro occhi non mi dicono nulla e io li guardo camminare mano nella mano. Alla fine la vedo. E lui è seduto proprio nel mezzo della panca di legno. Mi avvicino. «Tu non hai una prova costumi?» Non dice niente finché non mi
siedo accanto a lui. «Hanno bisogno di ripassare il testo una volta senza di me. Altrimenti potrebbero ammutinarsi. Faremo la prova costumi questa sera.» «Come mai sei venuto qui?» «Ti ricordi che quando avevo detto a tutti che ero gay tu dicevi “Tiny gioca per i White Sox” invece di dire “Tiny gioca per l’altra squadra”?» «Sì. È una cosa omofoba da dire?» «No» dice lui. «Be’, forse sì, ma non mi ha mai dato fastidio. Comunque mi volevo scusare.» «Di cosa?» A quanto pare ho appena borbottato le parole magiche, perché Tiny prende un bel respiro prima di iniziare a parlare,
come se (strano ma vero) avesse un sacco di cose da dire. «Per non averti detto in faccia quello che ho detto a Gary. Non mi voglio scusare per averlo detto, perché è vero. Tu e le tue maledette regole. E certe volte è vero che ti metti a rimorchio e c’è qualcosa di un po’ teatrale nella tua mancanza di teatralità e lo so che sono uno difficile però lo sei anche tu e la tua scenetta di quello che viene sfruttato da tutti ormai è vecchia e sei così egocentrico.» «Ha parlato quello giusto» dico cercando di non arrabbiarmi. Tiny ha un talento naturale per bucare il palloncino di amore che provavo per lui. Forse è per questo che viene lasciato così spesso.
«Ah! È vero, è vero. Non sto dicendo che io sono innocente. Sto dicendo che sei colpevole anche tu.» La coppia scompare dalla nostra vista. E poi mi sento finalmente libero di gettarmi alle spalle il tremore che Tiny pensa sia un segno della mia debolezza. Mi alzo in piedi in modo che mi debba guardare e così devo guardarlo anch’io e per una volta sono più alto di lui. «Ti amo» dico. Lui piega di lato il suo testone adorabile come se fosse un cucciolo confuso. «Sei un migliore amico terribile» gli dico. «Terribile! Mi molli ogni volta che hai un ragazzo e poi torni strisciando quando ti lasciano. Non mi ascolti. Non
sembra neanche che io ti piaccia. Ti fai ossessionare dallo spettacolo e mi ignori completamente, se non per insultarmi alle spalle con il tuo amico, e sfrutti la tua vita e le persone a cui dici di voler bene in modo che il tuo spettacolino ti faccia amare da tutti e perché tutti pensino quanto sei figo e quanto sei libero e quanto sei magnificamente gay, ma sai una cosa? Essere gay non è una buona scusa per essere uno stronzo. Ma tu sei al primo posto delle mie chiamate veloci e voglio che ci resti e mi dispiace di essere anch’io un migliore amico terribile e ti amo.» Lui continua a tenere la testa inclinata di lato e dice: «Grayson, ci stai
provando con me? Perché, cioè, non prenderla sul personale, ma preferirei essere etero che essere gay con te». «NO. No, no, no. Non voglio scopare con te. È solo che ti amo. Da quand’è che conta solo chi ti vuoi scopare? Da quand’è che l’unica persona che ami è quella che ti vuoi scopare? È una cosa così stupida, Tiny! Cioè, cazzo, chissenefrega del sesso?! Tutti si comportano come se fosse la cosa più importante che gli esseri umani facciano. Ma per favore! Come è possibile che le nostre cazzo di vite ruotino attorno a una cosa che possono fare anche le lumache?! Chi ti vuoi scopare, se te lo sei scopato, immagino siano domande importanti, va bene. Ma non sono così
importanti. Sai cosa è importante? Per c h i moriresti? Per chi ti svegli alle cinque e quarantatré del mattino anche se non sai neanche perché ha bisogno di te? Chi è che scaccoleresti quando è troppo ubriaco per farlo da solo?» Sto urlando e agito le braccia e finché non finisco le mie domande non mi accorgo neanche che Tiny sta piangendo. E poi dice sottovoce, più sottovoce di quanto l’abbia mai sentito parlare: «Se tu potessi scrivere uno spettacolo su una persona...» e poi la sua voce si spegne. Mi siedo accanto a lui, lo abbraccio. «Tutto bene?» In qualche modo Tiny Cooper riesce a contorcersi in modo che il suo testone pianga sulle mie esili spalle. E dopo un
po’ dice: «Settimana difficile. Mese difficile. Vita difficile». Si riprende in fretta e si asciuga gli occhi con il colletto della polo che porta sotto un maglione a righe. «Quando stai con qualcuno, hai già le tappe segnate: vi baciate, fate Il Discorso, dite le Due Paroline, vi sedete su un’altalena e vi lasciate. Si potrebbero segnare su un grafico. E per tutto il tempo controlli sempre dov’è l’altro. Posso dire questa cosa? Se la dico, la dirà anche lui? Ma con l’amicizia non c’è niente del genere. Stare con qualcuno è una cosa che scegli. Essere amici è una cosa che sei e basta.» Guardo il campo da baseball per un minuto. Tiny tira su con il naso. «Io ti
sceglierei» dico. «Cazzo, io ti scelgo. Voglio che tu venga a casa mia tra vent’anni con il tuo compagno e i vostri bambini adottati e voglio che i nostri figli siano amici e voglio bere insieme una bottiglia di vino e parlare del Medio Oriente o fare quel cazzo che vogliamo fare quando saremo vecchi. Siamo stati amici per troppo tempo per sceglierci, ma se potessimo farlo io ti sceglierei.» «Sì, però adesso stai diventando un po’ troppo mieloso, Grayson» dice lui. «Fa un po’ impressione.» «Ricevuto.» «Cioè, non dire mai più che mi ami.» «Ma io ti amo. E la cosa non mi imbarazza per niente.» «No, davvero, Grayson, piantala. Mi
sta venendo da vomitare.» Scoppio a ridere. «Ti serve una mano per lo spettacolo?» Tiny infila una mano in tasca, tira fuori un foglio di quaderno tutto ripiegato e me lo porge. «Pensavo che non me lo avresti mai chiesto» dice con un sorriso. Will (e in misura minore Jane), grazie per l’interesse che avete dimostrato nell’assistermi nella messinscena di Stringimi più forte. Vi sarei estremamente grato se poteste stare tutti e due dietro le quinte la sera della prima per dare una mano con i cambi di costume e per tranquillizzare gli attori (ok, diciamolo chiaro e
tondo: per tranquillizzare me). E poi così vedrete benissimo lo spettacolo. Tra l’altro il costume da Phil Wrayson è già ottimo, ma sarebbe ancora meglio se Gary avesse a disposizione dei vestiti un po’ più alla Will Grayson. Inoltre ho pensato che avrei avuto il tempo di preparare una playlist da mandare prima dello spettacolo con dei pezzi punk per le tracce dispari e dei pezzi tratti da musical per le tracce pari. Alla fine non ho avuto tempo di prepararla: se lo faceste sarebbe tremendamente fantastico. Siete una bella coppia ed è stato un grande piacere per me mettervi insieme e non ce l’ho minimamente con nessuno
dei due per non avermi ringraziato per avere reso possibile il vostro amore. Il vostro cupido e servitore solo e abbandonato in un oceano di dolore perché una qualche luce potesse risplendere nelle vostre vite, Tiny Cooper Rido mentre leggo la lettera e anche Tiny scoppia a ridere, annuendo e godendosi la propria favolosità. «Mi dispiace per com’è andata con l’altro Will Grayson» dico. Il suo sorriso crolla. La sua reazione sembra rivolta più al mio omonimo che a me: «Non c’è mai stato nessuno come lui». Non credo alle sue parole mentre le
pronuncia, ma poi sospira attraverso le labbra serrate, gli occhi tristi e persi in lontananza, e gli credo. «Mi sa che è meglio che cominci da qualche parte. Per cui: grazie per l’invito a stare dietro le quinte.» Lui si alza e inizia ad annuire come fa certe volte, un movimento ripetitivo che mi dice che si sta autoconvincendo di qualcosa. «Sì, dovrei tornare a far inferocire gli attori e la troupe con la mia regia tirannica.» «Ci vediamo domani, allora» dico io. «E tutti gli altri giorni» dice lui dandomi una pacca troppo forte sulle scapole.
capitolo diciotto inizio a trattenere il fiato. non come quando si passa davanti a un cimitero o roba del genere. no. sto cercando di capire per quanto tempo posso farlo prima di svenire o morire. è un passatempo molto comodo, puoi farlo praticamente dappertutto. in classe. a pranzo. in bagno. in camera tua. la parte schifosa è che arriva sempre il momento in cui faccio il respiro successivo. riesco ad arrivare solo fino a un certo punto. ho rinunciato a parlare con tiny. io
l’ho ferito, lui mi odia. è molto semplice. e adesso che non mi manda più messaggini mi rendo conto che non me li manda nessun altro. e non chatto con nessun altro. e di me non importa niente a nessun altro. adesso che lui non è più dentro di me, mi rendo conto che dentro di me non c’è nessuno. va bene, c’è gideon. lui non manda molti sms e non è un granché in chat, però quando siamo a scuola mi chiede sempre come va. e io smetto sempre di non respirare per rispondergli. e qualche volta gli dico addirittura la verità. io: a parte gli scherzi, è così che sarà il resto della mia vita? non credo
proprio di avere mai firmato qualcosa per avere una cosa del genere. lo so che sembra un’idiozia da adolescenti - mi sento degli spilli! nel cuore! e negli occhi! - ma è uno schema fisso. non diventerò mai una persona migliore. sarò sempre una merda. gideon: respira. e io mi chiedo come faccia a saperlo. le uniche volte in cui faccio finta che vada tutto bene è quando c’è maura nei paraggi. non voglio che mi veda crollare a pezzi. nel peggiore dei casi li schiaccerebbe con i piedi, i miei pezzi. nel caso ancora peggiore del peggiore
proverebbe a rimetterli insieme. mi rendo conto di una cosa: adesso sono dove era lei con me. dall’altra parte della barricata. uno potrebbe pensare che il silenzio sia una cosa pacifica. e invece è doloroso. a casa mamma mi tiene sempre d’occhio. il che mi fa stare ancora peggio, perché adesso sto facendo del male anche a lei. quella sera - la sera che ho mandato tutto a puttane con tiny ha nascosto la ciotola di vetro che lui le aveva regalato. l’ha messa via mentre dormivo. e la cosa stupida è che quando ho visto che era sparita la prima cosa che ho pensato è stata che lei avesse paura che la rompessi. poi ho capito che stava solo cercando di proteggermi, di
non farmi sbarellare. a scuola chiedo a gideon. io: perché si dice sbarellare? cosa c’entrano le barelle? gideon: domani mattina appena sveglio farò causa ai dizionari. tranquillo, vinciamo sicuro. io: sei proprio uno stronzo. gideon: sì, ma solo nelle giornate buone. non dico a gideon che mi sento in colpa a stargli vicino. e se la minaccia che tiny sentiva fosse vera? e se lo stessi tradendo senza neanche saperlo? io: secondo te si può tradire qualcuno senza saperlo?
non lo sto chiedendo a gideon. lo sto chiedendo a mia mamma. in questo periodo mi tratta con i guanti di velluto, se ne va in giro in punta di piedi e fa finta che vada tutto bene. ma adesso diventa di ghiaccio. mamma: perché me lo chiedi? hai tradito tiny? e io penso, oh, merda, non avrei dovuto chiederglielo. io: no. perché sei così arrabbiata? mamma: niente. io: dai, perché? papà ti ha tradita? scuote il capo.
io: tu hai tradito papà? sospira. mamma: no. non è questo. è... non voglio che tu tradisca mai nessuno. in certi casi fare qualcosa di nascosto può andare bene, ma non ingannare mai le persone perché, quando inizi e scopri quanto è facile, è difficilissimo fermarsi. io: mamma? mamma: tutto qui. perché me lo chiedevi? io: così, per curiosità. ultimamente ne ho parecchie di curiosità. certe volte, dopo un minuto che trattengo il fiato, oltre a immaginarmi morto, mi immagino anche
cosa sta facendo tiny. qualche volta me lo vedo con l’altro will grayson. spesso sono sul palco. ma non riesco mai a capire cosa stanno cantando. e la cosa strana è che sto pensando ancora a isaac. e a maura. e a quanto è strano che sia stata una bugia a rendermi più felice di quanto non sia mai stato. tiny non risponde mai quando lo chiamo in chat. poi, la sera prima dello spettacolo, decido di digitare il nome utente dell’altro will grayson ed eccolo lì. non che pensi che mi capirà perfettamente. sì, abbiamo lo stesso nome, ma non siamo mica gemelli telepatici. non è che gli farebbe male se io mi bruciassi o roba del genere. ma
quella sera a chicago ho sentito che un po’ mi capiva. e sì, voglio anche sapere se tiny sta bene. willupleasebequiet: ehi. willupleasebequiet: sono will grayson. willupleasebequiet: l’altro. WGrayson7: wow. ciao. willupleasebequiet: è un problema? se ti parlo, dico. WGrayson7: no. cosa ci fai sveglio all’1:33:48? willupleasebequiet: aspetto di vedere se all’1:33:49 sarà meglio. tu? WGrayson7: se non mi sbaglio ho appena visto via webcam un numero musicale che comprendeva il fantasma
di oscar wilde, dal vivo dalla camera da letto del WGrayson7: regista-autore-star-eccecc willupleasebequiet: com’era? willupleasebequiet: no. willupleasebequiet: volevo dire: come sta lui? WGrayson7: la verità? willupleasebequiet: sì. WGrayson7: non credo di averlo mai visto così nervoso, e non è perché è il regista-autore-star-ecc-ecc, ma perché per lui vuole dire tantissimo. pensa davvero di poter cambiare il mondo. willupleasebequiet: immagino. WGrayson7: scusa, ma è tardi. e non sono neanche sicuro che dovrei parlare
con te di tiny. willupleasebequiet: ho appena controllato sul regolamento della società internazionale dei will grayson e non ho trovato niente in proposito. è un territorio decisamente inesplorato. WGrayson7: hic sunt leones. willupleasebequiet: will? WGrayson7: sì, will? willupleasebequiet: lui lo sa che mi dispiace? WGrayson7: non lo so. in base alle mie esperienze più recenti ti posso dire che il dolore tende a oscurare il dispiacimento. willupleasebequiet: non potevo essere quella persona per lui. WGrayson7: quale persona?
willupleasebequiet: quella che vuole veramente. willupleasebequiet: vorrei tanto che non andasse sempre tutto avanti per prove ed errori. willupleasebequiet: perché è proprio così. non è che lo chiamano “procedere per prove e successi”. willupleasebequiet: è solo provaerrore. willupleasebequiet: prova-errore. willupleasebequiet: prova-errore. willupleasebequiet: scusa, sei ancora lì? WGrayson7: sì. WGrayson7: se mi avessi beccato due settimane fa, sarei stato completamente d’accordo con te.
WGrayson7: adesso però non ne sono più tanto sicuro. willupleasebequiet: perché? WGrayson7: be’, credo che “prove ed errori” sia un modo un po’ pessimistico di chiamare questa cosa. e magari è quasi sempre così. WGrayson7: ma penso che il punto sia che non è solo prova-errore. WGrayson7: spesso è prova-erroreprova WGrayson7: prova-errore-prova WGrayson7: prova-errore-prova WGrayson7: ed è così che lo trovi. willupleasebequiet: è così che trovi cosa? WGrayson7: sai, quella cosa. willupleasebequiet: sì, quella cosa.
willupleasebequiet: prova-erroreprova-quella cosa WGrayson7: be’... forse non sono diventato così tanto ottimista. WGrayson7: è più una cosa del tipo prova-errore-prova-errore-provaerrore-prova-errore-prova-erroreprova... almeno quindici altre volte... e poi prova-errore-prova-quella cosa. willupleasebequiet: lui mi manca, ma non come vorrebbe mancarmi. WGrayson7: vieni domani? willupleasebequiet: non credo che sarebbe una buona idea. tu sì? WGrayson7: dipende da te. potrebbe essere un errore. oppure potrebbe essere quella cosa. però fammi un favore: nel caso telefonami prima, così posso
avvisarlo. mi sembra giusto. mi dà il suo numero di telefono e io gli do il mio. lo digito nel cellulare prima di dimenticarmelo e, quando mi chiede il nome da associare al numero, scrivo semplicemente will grayson. willupleasebequiet: qual è il segreto della tua saggezza, will grayson? WGrayson7: frequentare le persone giuste, will grayson. willupleasebequiet: be’, grazie per l’aiuto. WGrayson7: sono sempre a disposizione degli ex dei miei migliori amici. willupleasebequiet: un bel
lavoraccio. WGrayson7: puoi dirlo forte. willupleasebequiet: buonanotte, will grayson. WGrayson7: buonanotte, will grayson. vorrei dire che questa cosa mi calma. vorrei dire che mi addormento subito. ma per tutta la notte continuo a pensare: prova-errore-? prova-errore-? prova-errore-? la mattina sono un catorcio. mi sveglio e penso oggi è il giorno fatidico e poi penso non ha niente a che fare con me. non l’ho nemmeno aiutato. e
adesso non vedrò neanche lo spettacolo. lo so che è giusto, ma non mi sento come se fosse giusto. mi sento di merda. mamma a colazione nota la mia autocommiserazione da record. probabilmente dipende da come affogo i cereali finché non faccio traboccare il latte. mamma: will, cosa c’è che non va? io: cosa c’è che va? mamma: will... io: va tutto bene. mamma: no che non va tutto bene. io: come fai a dirmelo tu? non è una mia scelta? si siede davanti a me e mi prende una
mano nella sua anche se c’è una pozzanghera di latte e cereali sotto il suo polso. mamma: sai quanto urlavo? non ho idea di cosa stia parlando. io: tu non urli. ti zittisci. mamma (scuotendo il capo): anche quando eri piccolo, ma soprattutto quando io e tuo padre abbiamo passato quello che abbiamo passato... c’erano volte in cui dovevo uscire, salire in auto, fare il giro dell’isolato e urlare fino a sgonfiarmi. urlavo e urlavo e urlavo, certe volte era solo un rumore, altre volte erano parolacce... tutte quelle che riesci a immaginare.
io: io ne riesco a immaginare un sacco. hai mai urlato spacciamerda! mamma: no, ma... io: oppure scoparatti! mamma: will... io: dovresti provare con scoparatti, dà una certa soddisfazione. mamma: quello che volevo dire è che ci sono delle volte in cui devi buttare tutto fuori. tutta la rabbia. tutto il dolore. io: hai mai pensato di parlarne con qualcuno. cioè, io ho delle pillole che ti potrebbero aiutare, ma credo che ci voglia la ricetta. ma non c’è problema, ci metti soltanto un’ora a farti diagnosticare una bella depressione. mamma: will. io: scusa. è solo che non è proprio
rabbia o dolore. è rabbia nei confronti di me stesso. mamma: è sempre rabbia. io: ma non ti sembra che non dovrebbe contare? cioè, non è come essere arrabbiato con qualcun altro. mamma: perché questa mattina? io: in che senso? mamma: perché sei particolarmente arrabbiato con te stesso proprio questa mattina? non avevo intenzione di pubblicizzare troppo il fatto che sono arrabbiato. mi ci ha costretto con l’inganno. ed è una cosa che rispetto. per cui le dico che oggi è il giorno del musical di tiny. mamma: dovresti andarci.
adesso tocca a me scuotere la testa. io: neanche per idea. mamma: e invece sì. e will? io: sì? mamma: dovresti anche parlare con maura. mi ingozzo di cereali prima che riesca a convincermi. quando arrivo a scuola passo davanti a maura e poi cerco di distrarmi. cerco di stare attento in classe, ma le lezioni sono così noiose che è come se i professori stessero facendo tutto il possibile per respingermi verso i miei pensieri. ho paura di quello che mi dirà gideon se mi confido con lui, così faccio finta che sia
una giornata come tutte le altre e che non sto catalogando tutte le cose che ho sbagliato nelle ultime settimane. ho dato davvero una possibilità a tiny? e a maura? non avrei dovuto permettergli di calmarmi? non avrei dovuto permetterle di spiegare perché ha fatto quello che ha fatto? alla fine della giornata non ce la faccio più a reggere da solo e decido di parlarne con gideon. una parte di me spera che mi dica che non ho niente di cui vergognarmi, che non ho fatto niente di sbagliato. lo trovo al suo armadietto e gli dico io: ci puoi credere? mia mamma ha detto che dovrei andare a vedere lo
spettacolo di tiny e parlare con maura. gideon: ha ragione. io: tua sorella ha usato la tua bocca come pipa da crack ieri sera? sei impazzito? gideon: non ho sorelle. io: fa lo stesso. sai cosa voglio dire. gideon: ci vengo con te. io: cosa? gideon: prendo l’auto di mia madre. sai dov’è la scuola di tiny? io: stai scherzando. ed è a quel punto che succede. è quasi sbalorditivo. davvero. gideon diventa un po’ - solo un po’ - più simile a me. gideon: possiamo mandare affanculo la parte del “stai scherzando”? va bene?
non sto dicendo che tu e tiny dovete stare insieme per sempre e fare degli enormi bambini depressi con periodi di magrezza maniacale, però penso che il modo in cui vi siete lasciati non ha senso e se ce li avessi scommetterei venti dollari che lui si sente di merda come te. o magari si è trovato un nuovo ragazzo. magari anche lui si chiama will grayson. in ogni caso tu sarai una gran rottura di coglioni ambulante finché qualcuno non ti porterà a calci nel culo da lui, e in questo caso specifico, come in qualsiasi altro caso specifico in cui hai bisogno di me, quel qualcuno sono io. sono io il cavaliere senza macchia e con una jetta. sono il tuo dannato destriero.
io: gideon, non avevo idea... gideon: chiudi quella cazzo di bocca. io: dillo di nuovo! gideon (ridendo): chiudi quella cazzo di bocca! io: ma perché? gideon: perché dovresti chiudere quella cazzo di bocca? io: no, perché sei il mio destriero? gideon: perché tu sei mio amico, testa di cavolo. perché sotto sotto sei una persona profondamente gentile. e perché da quando me ne hai parlato la prima volta ho una voglia pazzesca di vedere quel musical. io: va bene, va bene, va bene. gideon: e la seconda parte? io: quale seconda parte?
gideon: parlare con maura. io: stai scherzando. gideon: neanche un po’. hai quindici minuti mentre io vado a prendere la macchina. io: non voglio. gideon mi lancia un’occhiataccia. gideon: ma cos’hai, tre anni? io: perché dovrei farlo? gideon: scommetto che riesci risponderti da solo.
a
così gli dico che è completamente fuori strada. lui mi dice che devo farlo e che darà un colpo di clacson quando arriverà davanti alla scuola. la cosa malata è che so che ha
ragione. per tutto questo tempo ho pensato che la cura del silenzio stesse funzionando. perché non è che lei mi manchi. poi mi rendo conto che il punto non è se mi manca o no. il punto è che mi sto ancora portando sulle spalle quello che è successo, proprio come lei. e me ne devo liberare. perché abbiamo avvelenato tutti e due la nostra amicizia con le nostre tossine. e anche se io non ho inventato nessun ragazzo immaginario, di sicuro ho contribuito alle nostre prove con un sacco di errori. non esiste che tra noi si possa mai trovare un qualche stato ideale di quella cosa. ma credo di avere capito che dobbiamo almeno trasformare tutto questo in qualcosa di sopportabile.
esco e lei è ancora nello stesso posto in cui l’ho vista all’inizio della giornata. appollaiata su un muretto, il blocco in mano. fissa gli altri ragazzi che le passano davanti, sicuramente guardando tutti - me compreso - dall’alto in basso. sento che avrei dovuto preparare un discorso, ma per farlo avrei dovuto sapere cosa avrei detto. e in realtà non ne ho idea. il meglio che riesco a tirare fuori è io: ciao al che lei dice maura: ciao mi punta addosso quel suo sguardo
vacuo. io mi guardo le scarpe. maura: a cosa devo il piacere? è così che ci siamo sempre parlati. e non ho più l’energia per farlo. non è così che voglio parlare con i miei amici. non sempre. io: maura, smettila. maura: smetterla? stai scherzando, vero? non mi parli per un mese e quando lo fai è per dirmi di smetterla? io: non è per questo che sono venuto qui... maura: e allora perché ci sei venuto? io: non lo so, va bene? maura: cosa vuol dire? lo devi sapere per forza.
io: senti. voglio solo che tu sappia che anche se penso ancora che quello che hai fatto è stata una cosa da stronza totale, mi rendo conto di essere stato anch’io stronzo con te. non nel modo elaborato in cui lo sei stata tu con me, ma comunque abbastanza stronzo. avrei dovuto essere sincero e dirti che non ti volevo parlare o essere il tuo ragazzo o essere il tuo migliore amico o roba del genere. ci ho provato... giuro che ci ho provato, ma tu non volevi ascoltare quello che dicevo e io l’ho usata come scusa per lasciar andare avanti le cose. maura: però ti piacevo quando ero isaac. quando chattavamo tutte le sere. io: ma era una bugia! una bugia totale!
adesso maura mi guarda dritto negli occhi. maura: dai, will, lo sai che non esistono bugie totali. c’è sempre dentro un po’ di verità. non so come reagire a questa frase. e allora dico la prima cosa che mi viene in mente. io: non eri tu che mi piacevi. era isaac. mi piaceva isaac. la vacuità del suo sguardo cede il posto alla tristezza. maura: ...e tu piacevi a isaac.
vorrei dirle: io voglio solo essere me stesso. e voglio esserlo con qualcuno che è se stesso, tutto qui. voglio vedere attraverso tutte le recite e le finzioni e arrivare dritto alla verità. e forse questo è il massimo della verità che io e maura troveremo mai... il riconoscimento di una bugia e dei sentimenti che c’erano dietro. io: mi dispiace, maura. maura: dispiace anche a me. credo che sia per questo che gli ex si chiamano ex: perché le strade si incrociano nel mezzo e si separano alla fine. è facile vedere la X come una croce per cancellare qualcosa. ma non è così, perché non c’è verso di cancellare
una cosa del genere. la X è il diagramma di due strade. sento il clacson e mi volto per vedere gideon che si ferma sull’auto di sua mamma. io: devo andare. maura: e allora vai. la lascio e salgo sull’auto di gideon e gli dico tutto quello che è successo. lui dice che è fiero di me e io non so cosa farmene. gli chiedo io: perché? e lui dice gideon: per avere detto che ti
dispiaceva. non ero sicuro che ci saresti riuscito. gli dico che non ne ero sicuro nemmeno io. ma mi dispiaceva davvero. e volevo essere sincero. all’improvviso ci ritroviamo per strada. non so neanche se arriveremo in tempo per lo spettacolo di tiny. non so neanche se ci dovrei andare. non so neanche se voglio davvero vedere tiny. voglio solo vedere com’è venuto lo spettacolo. gideon sta fischiettando insieme alla radio accanto a me. di solito queste stronzate mi infastidiscono, ma questa volta no. io: mi piacerebbe potergli mostrare la
verità. gideon: a tiny? io: sì. non c’è bisogno di stare insieme a qualcuno per pensare che sia fantastico, giusto? andiamo avanti ancora un po’. gideon ricomincia a fischiettare. io mi immagino tiny che corre qua e là dietro le quinte. poi gideon smette di fischiettare. sorride e tira un pugno al volante. gideon: per giove, ci sono! io: dimmi che non hai appena detto per giove! gideon: ammettilo. ti piace. io: è strano, ma sì.
gideon: penso di avere un’idea. così me la racconta. e non posso credere di avere seduta accanto a me una persona così malata e contorta e brillante. ancora peggio: non posso credere che sto per fare quello che suggerisce.
capitolo diciannove Io e Jane passiamo le ore che precedono La Prima a mettere insieme la playlist perfetta, che comprende, come richiesto, pezzi punk alternati a canzoni di musical. Ci sono anche Annus Miribalis e la canzone più punk dei per niente punk Neutral Milk Hotel. Per quanto riguarda i brani tratti dai musical, scegliamo nove versioni diverse di Over the Rainbow, compresa una reggae. Una volta finito di discutere e scaricare, Jane torna a casa a cambiarsi. Io sono ansioso di arrivare
all’auditorium ma mi sembra ingiusto nei confronti di Tiny presentarmi in jeans e maglietta di Willie il Micio Selvatico all’evento più importante della sua vita. Così mi metto una delle giacche di papà sopra la maglietta, mi sistemo i capelli e mi sento pronto. Aspetto a casa finché non arriva mamma, prendo le sue chiavi dell’auto prima ancora che abbia aperto del tutto la porta e vado a scuola. Entro nell’auditorium quasi completamente vuoto (manca ancora più di un’ora allo spettacolo) e incontro Gary, che si è schiarito i capelli, se li è tagliati più corti e li ha arruffati come i miei. E ha addosso i miei vestiti che gli
ho portato ieri: pantaloni verde militare, una camicia a maniche corte che adoro e le mie All Star nere. L’effetto sarebbe surreale, se non fosse che i vestiti sono incredibilmente stropicciati. «Tiny non è riuscito a trovare un ferro da stiro?» chiedo. «Grayson» dice Gary. «Guardati i pantaloni.» Lo faccio. Uh. Non sapevo neanche che i jeans si potessero stropicciare. Mi mette un braccio attorno alle spalle e dice: «Ho sempre pensato che facesse parte del tuo look». «Adesso sì» dico. «Come va? Sei nervoso?» «Sono un po’ nervoso, sì, ma mai quanto Tiny. A proposito, non è che
potresti andare là dietro e provare... ehm... a fare qualcosa? Questi» dice indicando i suoi vestiti «erano per le prove. Adesso devo mettere la divisa dei White Sox». «Ok» dico io. «Dov’è?» «Nel bagno dei camerini» risponde Gary. Gli do il cd con le musiche per il prespettacolo, corricchio in mezzo alle poltrone e mi infilo dietro il pesante sipario rosso. Incontro vari membri del cast con i costumi più diversi e per una volta sono zitti. Si stanno truccando a vicenda. Tutti i maschi portano delle uniformi dei White Sox, con tanto di scarpe con i tacchetti e calzettoni tirati sopra i pantaloncini aderenti. Dico ciao a Ethan, l’unico che conosco veramente,
e poi sto per mettermi a cercare il bagno quando noto la scenografia. È una panchina da baseball estremamente realistica, che mi stupisce. «Ma queste sono le scene per tutto lo spettacolo?» chiedo a Ethan. «Ma va’!» dice lui. «Ce n’è una diversa per ogni atto.» Sento in lontananza un potente ruggito seguito da una serie di tonfi orrendi e il mio primo pensiero è Tiny ha inserito nello spettacolo anche una parte per un elefante e l’elefante ha appena vomitato, ma poi mi rendo conto che l’elefante è Tiny. Pur sapendo che sto facendo un errore seguo quel rumore fino al bagno, dove risuona di nuovo. Vedo i piedi di Tiny
che spuntano da sotto il séparé. «Tiny» dico. «BLLLAAAARRRRGGGHH» risponde lui, e poi risucchia disperatamente un po’ d’aria nei polmoni prima di avere un altro conato. La puzza è devastante, ma faccio un passo avanti e socchiudo la porta. Tiny è abbracciato alla tazza con addosso la più grande divisa dei Sox del mondo. «È il nervoso o ti sei preso qualcosa?» chiedo. «BBLLLLLLAAAAAAAAAAAOOOO Non si può non restare sbalorditi dal volume di materia che sgorga dalla bocca spalancata di Tiny. Intravedo della lattuga e vorrei non averlo fatto perché subito inizio a chiedermi: tacos?
Panino al tacchino? Mi sento sul punto di iniziare anch’io a vomitare. «Ok, amico, tira fuori tutto quanto e poi starai bene.» Nick irrompe nel bagno e inizia a lamentarsi: «Che puzza, che puzza!» e poi dice: «Non spettinarti, Cooper! Tieni i capelli fuori dal cesso. Abbiamo passato delle ore a sistemarteli, quei capelli!». Tiny sputacchia e tossisce e poi gracchia: «La gola. Mi fa male». Lo capiamo tutti e due nello stesso momento: la voce principale dello spettacolo è fuori gioco. Lo prendo per un’ascella e Nick lo prende per l’altra e lo solleviamo e lo trasciniamo via. Tiro lo sciacquone
cercando di non guardare l’orrore indicibile dentro la tazza. «Ma cosa hai mangiato?» «Un burrito di pollo e un burrito di manzo al Burrito Palace» risponde lui. La sua voce è strana e lui lo sa, perciò prova a cantare. «Cos’è una seconda base per un... merda merda merda merda, mi sono sputtanato la voce. Merda.» Con Nick ancora sotto una delle braccia di Tiny e me sotto l’altra, torniamo dagli altri attori e io urlo: «Mi serve un tè caldo con un sacco di miele e del bicabornato. Subito!». Jane arriva di corsa con addosso una maglietta bianca da uomo con il collo a V e la scritta Io sto con Phil Wrayson.
«Ci penso io» dice. «Tiny, ti serve altro?» Lui solleva una mano per farla stare zitta e grugnisce: «Che cos’è?». «Cosa?» chiedo io. «Quel rumore. In lontananza. È... è... porca puttana, Grayson, hai messo Over the Rainbow nel cd da suonare prima dello spettacolo?» «Oh, sì» dico io. «Un sacco di volte.» «TINY COOPER ODIA OVER THE RAINBOW!» La sua voce si incrina mentre urla. «Merda, la mia voce è proprio andata. Merda.» «Stai zitto» dico io. «Sistemeremo tutto, amico. Basta che la smetti di vomitare.» «Non ho più burritos da vomitare, anche volendo» risponde lui.
«STAI ZITTO» insisto io. Annuisce. Dopo qualche minuto, mentre tutti se ne corrono in giro sventolandosi le facce truccate e dicendosi quanto saranno eccezionali, io resto solo con un Tiny Cooper silenzioso. «Non sapevo che anche tu potessi essere nervoso. Diventi nervoso anche prima delle partite di football?» Lui scuote il capo. «Va bene, tu annuisci se indovino. Hai paura che lo spettacolo faccia schifo?» Annuisce. «Sei preoccupato per la tua voce?» Annuisce. «E poi? Tutto qui?» Scuote la testa. «Mmm, hai paura che lo spettacolo non farà cambiare idea agli omofobici?» No. «Hai paura di vomitare sul palco?» No. «Non lo so, Tiny, ma di qualsiasi cosa tu
abbia paura devi stare tranquillo. Li stenderai tutti quanti. L’ovazione andrà avanti per ore. Durerà più dello spettacolo.» «Will» sussurra. «Risparmiati la voce.» «Will» ripete. «Sì?» «No. Will.» «Vuoi dire l’altro Will?» dico io, e lui solleva un sopracciglio e sorride. «Vado a vedere» dico. Venti minuti all’inizio dello spettacolo e l’auditorium è già praticamente pieno. Mi piazzo sul bordo del palco e guardo fuori per un secondo, sentendomi un po’ famoso. Poi scendo di corsa le scale e risalgo lentamente il corridoio a destra del
palco. Voglio anch’io che Will ci sia. Voglio che sia possibile che persone come Will e Tiny siano amiche, non solo prove ed errori. Anche se sento di conoscere Will, mi ricordo a malapena la sua faccia. Cerco di escludere tutti quelli che vedo seduti. Un migliaio di persone che scrivono sms e ridono e si agitano nelle poltrone. Un migliaio di persone che leggono il programma dove - scoprirò più tardi - a me e Jane è riservato un ringraziamento speciale perché siamo “strafighi”. Un migliaio di persone che aspettano di vedere Gary che fa finta di essere me per un paio d’ore, senza avere la minima idea di quello che stanno per vedere. E naturalmente non lo so neanch’io: so che
lo spettacolo è cambiato da quando l’ho letto mesi fa, ma non so come. Tutte queste persone, e io cerco di guardarle una a una. Vedo il professor Fortson, il mentore della GSA, seduto con il suo compagno. Vedo due dei nostri vicepresidi. E poi mentre arrivo al centro, mentre i miei occhi cercando quelli di Will Grayson, vedo due volti più vecchi che mi guardano. I miei genitori. «Cosa ci fate qui?» Mio padre scrolla le spalle. «Ti stupirà sapere che non è stata una mia idea.» Mamma gli tira una gomitata. «Tiny mi ha scritto un messaggio molto carino su Facebook per invitarci
personalmente, e ho pensato che fosse davvero dolce.» «Tu sei amica di Tiny su Facebook?» «Sì. Mi ha chiesto lui l’amicizia» dice mamma. «Be’, grazie per essere venuti. Io starò dietro le quinte ma... be’... ci si becca dopo.» «Salutaci Jane» dice mamma tutta sorrisi cospiratori. «Va bene.» Finisco di percorrere il corridoio di destra e poi mi faccio tutto quello di sinistra. Niente Will Grayson. Quando arrivo dietro le quinte vedo Jane con in mano una confezione formato famiglia di bicarbonato. La ribalta e dice: «Se l’è presa tutta».
Tiny salta fuori da dietro le scene e canta: «E adesso mi sento una FAAAAAAAVOLAAAA!». La sua voce sembra a posto, per il momento. «Rock ’n’ roll» gli dico. Lui mi si avvicina e mi rivolge uno sguardo interrogativo. «Ci saranno milleduecento persone in sala, Tiny» gli dico. «Non lo hai visto» dice lui annuendo piano. «Va bene. Sì. Va bene. Va tutto bene. Grazie per avermi fatto stare zitto.» «E per avere tirato l’acqua sui tuoi diecimila litri di vomito.» «Certo, anche per quello.» Prende un gran respiro e gonfia le guance. Il suo volto diventa quasi perfettamente circolare. «Mi sa che è ora.»
Tiny chiama gli attori e la troupe accanto a sé. Si inginocchia al centro di quella massa di gente che si tocca a vicenda, perché le leggi della natura vogliono che i teatranti adorino toccarsi. Gli attori costituiscono il primo cerchio attorno a Tiny, tutti, maschi e femmine, vestiti da White Sox. Poi c’è il coro: al momento sono tutti vestiti di nero. Ci uniamo anche io e Jane. Tiny dice: «Voglio solo ringraziarvi e dirvi che siete fantastici e che mi dispiace di avere vomitato prima. E comunque è successo perché mi sono preso un’intossicazione da meraviglia stando vicino a gente meravigliosa come voi». Con questa frase riesce a estorcere qualche risatina nervosa. «Lo so che
siete tesi come corde di violino, ma fidatevi di me: siete favolosi. E adesso andiamo a realizzare qualche sogno.» Tutti urlano e sollevano una mano verso il soffitto, le dita tese e frementi. La luce dietro il sipario viene spenta. Tre giocatori di football spingono la scenografia al suo posto. Io mi faccio da parte e mi metto accanto a Jane nell’oscurità cavernosa, le nostre dita intrecciate. Mi batte forte il cuore e posso solo immaginare come si sente Tiny in questo momento. Starà pregando che il bicarbonato continui a fare effetto, di non dimenticarsi le battute, di non svenire, di non vomitare. È già abbastanza dura lì, tra le quinte, e ora capisco il coraggio che ci vuole per
salire sul palco e dire la verità. Peggio: cantare la verità. Una voce preregistrata dice: «Per non disturbare la favolosità dello spettacolo, vi preghiamo di spegnere i cellulari». Infilo la mano libera in tasca e imposto il mio sulla vibrazione. Sussurro a Jane: «Potrei vomitare» e lei dice: «Shhh» e io sussurro: «Ehi, i miei vestiti sono sempre stropicciatissimi?» e lei sussurra: «Sì. Shhh» e mi stringe la mano. Il sipario si apre. Un applauso educato. Tutti gli attori sono seduti sulla panchina, a parte Tiny, che cammina nervosamente avanti e indietro davanti ai giocatori. «Dai, Billy. Sii paziente, Billy. Aspetta il tuo momento.» Mi
rendo conto che Tiny non sta interpretando Tiny: sta interpretando l’allenatore. A interpretare Tiny c’è un tizio cicciottello del secondo anno. Non riesce a tenere ferme le gambe. Non capisco se sta recitando o se è nervoso davvero. Dice con un tono esageratamente effeminato: «Buuu battitore battitoruccio!». Sembra stia flirtando con il battitore, più che insultarlo. «Idiota» dice qualcuno in panchina. «Ci siamo noi alla battuta.» Gary dice: «Tiny è gomma. Tu sei colla. Qualsiasi cosa tu dica gli rimbalza contro e ti si incolla addosso». Capisco che sta interpretando me da
come tiene le spalle basse e dallo sguardo mansueto. «Tiny è gay» aggiunge qualcun altro. L’allenatore si avvicina alla panchina e urla. «Ehi! EHI! Niente insulti ai compagni di squadra.» «Non è un insulto» dice Gary. Ma non è più Gary. Non è Gary che sta parlando. Sono io. «È solo un fatto. Cioè, ci sono persone che sono gay. E altre persone che hanno gli occhi azzurri.» «Stai zitto, Wrayson» dice l’allenatore. Il ragazzo che interpreta Tiny guarda con gratitudine quello che interpreta me e poi uno dei bulli sussurra a voce alta: «Siete proprio una bella coppia gay».
E io recito in rima: «Se anche sono gay / sono solo fatti miei». È successo davvero. Me lo ero dimenticato, ma vedendo quel momento riportato alla vita sul palco me lo ricordo. E il ragazzo dice: «Tu vuoi andare in seconda base... CON TINY». Il me stesso sul palco solleva gli occhi al cielo. E poi il ragazzo cicciottello che interpreta Tiny si alza e fa un passo avanti, davanti all’allenatore, e canta: «Cos’è una seconda base per un uomo gay?». E poi Tiny fa un passo avanti e si unisce a lui e armonizza e si lanciano nella più grande canzone da musical che io abbia mai sentito. Il coro canta:
Cos’è una seconda base per un uomo gay? E chi lo scoprirà mai? Non so proprio come sarà ma come deve andare andrà! Dietro i due Tiny che cantano a braccetto, i ragazzi del coro, compreso Ethan, si lanciano in una elaborata e divertentissima coreografia vecchio stile, usando le mazze come bastoni e i berretti come cappelli a cilindro. A un certo punto metà dei ragazzi tira una botta in testa con la mazza all’altra metà, e anche se da dove mi trovo io si vede benissimo che è finta, quando i ragazzi colpiti cadono all’indietro e la musica si interrompe, trattengo il fiato insieme al
pubblico. Qualche istante dopo saltano su tutti quanti all’unisono e la canzone riparte. Alla fine Tiny e il cicciottello escono di scena ballando e il pubblico si mette a urlare e quando le luci si spengono Tiny mi atterra quasi in braccio, fradicio di sudore. «Niente male» dice. Io scuoto il capo, affascinato. Jane lo aiuta a togliersi le scarpe e dice: «Tiny, tu sei un genio». Lui si strappa via l’uniforme da baseball rivelando una polo molto alla Tiny e un paio di pantaloni corti. «Lo so, lo so» dice. «È tempo di rivelarmi al mio pubblico» dice, dopodiché si lancia sul palco. Jane mi prende la mano e mi bacia il collo.
È una scena tranquilla in cui Tiny dice ai suoi che probabilmente è un pochino gay. Suo padre è seduto in silenzio mentre sua madre canta il proprio amore incondizionato. La canzone è divertente perché Tiny continua a interrompere la madre ogni volta che canta Noi ameremo sempre il nostro Tiny con rivelazioni del tipo E ho anche copiato il compito di matematica o È un pezzo che vi bevo di nascosto la vodka oppure Do i piselli da mangiare al cane. Quando la canzone finisce le luci si abbassano di nuovo, ma Tiny non lascia il palco. Quando le luci si alzano non ci sono scenografie, ma a giudicare dagli elaborati costumi degli attori ci troviamo alla parata del Gay Pride. Tiny
e Phil Wrayson sono in piedi al centro del palco e la gente marcia davanti a loro intonando i propri slogan e salutando a destra e a manca. Gary mi assomiglia così tanto che mi fa impressione. Sembra più il me stesso del secondo anno di quanto Tiny sembri il se stesso del secondo anno. Parlano per un minuto e poi Tiny dice: «Phil, io sono gay». Io dico sbalordito: «No». E lui dice: «È così». Io scuoto il capo. «Tu... cioè... ma proprio gay gay?» «Sì, gay gay, come quello là» dice lui indicando Ethan, che porta una canotta gialla attillatissima. «Tipo che, se gli parlassi per un po’ e oltre a essere un
gran figo avesse anche personalità e mi rispettasse come persona, io gli permetterei di baciarmi in bocca.» «Tu sei gay?» dico io come se non riuscissi a capire. «Sì. Lo so, lo so che è uno shock. Ma volevo che tu fossi il primo a saperlo. A parte i miei genitori, dico.» E a quel punto Phil Wrayson attacca a cantare più o meno esattamente quello che ho detto io quando è successa questa cosa: E adesso mi dirai che il cielo è azzurro, che usi lo shampoo per ragazze, che i critici non apprezzano i Blink 182. Oh, adesso mi dirai che il Papa è cattolico, che le puttane battono e che Elton John fa schifo. E poi la canzone diventa un botta e
risposta con Tiny che è stupito che io sapessi già che era gay e io che canto quanto fosse ovvio. Ma di football sono un giocatore. Sei più gay di un gladiatore. Credevo di avere ingannato chicchessia. Ma se sei più femmina di mia zia! E così via. Non riesco a smettere di ridere, ma soprattutto non riesco a credere che Tiny si ricordi così bene tutto quanto, non riesco a credere quanto ci siamo fatti del bene a vicenda. E io, sul palco, canto: Tu non mi vuoi, di’ lo giuro! e Tiny risponde: Preferirei farmi un canguro e alle sue spalle il coro sgambetta come un branco di ballerine
di fila. Jane mi mette le mani sulle spalle per farmi abbassare un po’ e sussurra: «Visto? Ti ama anche lui» e io mi volto verso di lei e la bacio nel breve momento di buio tra la fine della canzone e l’inizio dell’applauso. Mentre il sipario si chiude per un cambio di scena, non vedo la standing ovation, ma la sento. Tiny corre fuori dal palco urlando: «UUUAAAHHH!». «Potrebbe andare a Broadway questo spettacolo» gli dico. «È migliorato parecchio quando è diventato un musical sull’amore.» Mi sorride con mezza bocca, e so che è il massimo che mi offrirà. Tiny è quello
gay, ma quello sentimentale sono io. Annuisco e sussurro un grazie. «Scusa se nella prossima parte fai un po’ la figura del rompiballe.» Tiny allunga una mano per toccarsi i capelli e Nick compare dal nulla da sopra un amplificatore per afferrare il braccio di Tiny urlando: «NON TOCCARE QUEI CAPELLI! SONO PERFETTI!». Si alza il sipario e la scena è un corridoio della nostra scuola. Tiny sta attaccando dei poster. Io lo sto infastidendo con la mia vocetta insicura. La cosa non mi disturba (o almeno non troppo): l’amore in fondo è ammantato di verità. Subito dopo quella scena ce n’è una in cui Tiny è ubriaco a una festa e il personaggio di Janey fa la sua unica
comparsa sul palco: un duetto con Phil Wrayson cantato dai lati opposti di un Tiny svenuto. La canzone culmina con la voce di Gary che finalmente si fa più sicura e io che mi chino sopra il corpo borbottante di Tiny e la bacio. Riesco a vedere questa scena solo a metà, perché non riesco a staccare lo sguardo dal sorriso di Jane mentre la guarda. Le canzoni diventano sempre più belle e l’ultima prima dell’intervallo tutto il pubblica la canta insieme a Oscar Wilde sopra un Tiny addormentato: La pura e semplice verità è raramente pura e mai semplice. Cosa deve fare un ragazzo quando sia bugie che verità sono un
peccato? Alla fine della canzone si chiude il sipario e si accendono le luci in sala per l’intervallo. Tiny corre da noi e ci piazza una zampa sulle spalle e lancia un barrito di gioia. «È fantastico» gli dico. «Davvero, è proprio... grandioso.» «Wow! La seconda parte però è molto più tenebrosa. È la parte romantica. Va bene va bene va bene va bene, ci vediamo dopo!» dice, e poi corre via a congratularsi con gli attori e probabilmente anche a fare loro una lavata di capo. Jane mi porta in un angolo isolato tra le quinte e dice: «Lo hai fatto davvero?
Lo difendevi quando giocavate nella Little League?». «Be’, anche lui difendeva me» dico io. «La bontà mi eccita» dice mentre ci baciamo. Dopo un po’ vedo le luci in sala abbassarsi e rialzarsi. Io e Jane torniamo accanto al palco. Le luci in sala si abbassano di nuovo per segnalare la fine dell’intervallo. E dopo un istante una voce dall’alto dice: «L’amore è il miracolo più comune». All’inizio penso tipo che Dio ci stia parlando, ma subito dopo mi rendo conto che è la voce di Tiny quella che esce dagli altoparlanti. Sta iniziando la seconda parte.
Tiny si siede sul fronte del palco al buio e dice: «L’amore è sempre un miracolo, ovunque, in ogni momento. Ma per noi è un po’ diverso. Non voglio dire che sia più miracoloso» dice, e la gente ridacchia un po’. «Però lo è.» Le luci si alzano lentamente e solo ora vedo che dietro Tiny c’è una vera altalena che sembra essere stata strappata dal parco giochi e portata di peso sul palco. «Il nostro miracolo è diverso perché la gente dice che è impossibile. Come si dice nel Levitico: “Un bonazzo non giacerà con un altro bonazzo”.» Abbassa lo sguardo e poi lo sposta sul pubblico e capisco che sta cercando l’altro Will e non lo trova. Si alza in piedi. «Ma non dice che un bonazzo non si
innamorerà di un altro bonazzo, perché questo è proprio impossibile, giusto? I gay sono animali, reagiscono ai loro desideri animali. È impossibile che degli animali si innamorino. Eppure...» All’improvviso le ginocchia di Tiny cedono e lui crolla a terra. Io scatto in piedi e faccio per correre sul palco a raccoglierlo, ma Jane mi afferra per la maglietta mentre Tiny solleva la testa verso il pubblico e dice: «Io cado e cado e cado e cado e cado». E in quell’istante preciso il cellulare mi vibra in tasca. Lo tiro fuori. Sullo schermo c’è scritto Will Grayson.
capitolo venti quella che ho di fronte è la cosa più sballata che abbia mai visto. francamente non pensavo che io e gideon saremmo arrivati in tempo. il traffico di chicago è bastardo, tanto per cominciare, ma in questo caso si muoveva più lento dei pensieri di un sasso. io e gideon abbiamo dovuto fare una gara di parolacce per calmarci un po’. adesso che ce l’abbiamo fatta, penso che non c’è verso che il nostro piano possa funzionare. è folle e geniale, che è
esattamente quello che si merita tiny. e perché il piano funzioni devo fare un sacco di cose che di solito non faccio, tra cui: - parlare con degli sconosciuti - chiedere dei favori a degli sconosciuti - essere disposto a fare la figura dell’idiota - lasciare che qualcun altro (gideon) mi aiuti il piano poi fa affidamento su una serie di cose al di là del mio controllo, tra cui: - la generosità degli sconosciuti - la capacità degli sconosciuti di
essere spontanei - la capacità degli sconosciuti di guidare velocemente - il fatto che il musical di tiny duri più di un atto sono sicuro che sarà un disastro totale. ma credo che il punto sia che lo farò in ogni caso. so di essere arrivato a pelo perché quando io e gideon entriamo nell’auditorium stanno portando sul palco un’altalena. e non è un’altalena qualsiasi. riconosco quell’altalena. la stessa identica altalena. ed è a questo punto che la situazione si fa davvero sballata. gideon: porca merda.
a questo punto gideon sa tutto quello che è successo. non solo tra me e tiny, ma anche tra me e maura e tra me e mia mamma e di base tra me e tutto il mondo, e non mi ha detto neanche una volta che sono stupido o cattivo o orribile o che era impossibile aiutarmi. in altre parole, non ha detto nessuna delle cose che mi stavo dicendo io. invece, durante il viaggio in auto, mi ha detto gideon: ci sta tutto quanto. io: sì? gideon: sì. io avrei fatto le stesse cose che hai fatto tu. io: bugiardo. gideon: per niente.
poi mi ha mostrato il mignolo. gideon: giurin giuretta. e io gli ho agganciato il mignolo con il mio. siamo andati avanti un po’ con i mignoli intrecciati. io: ancora un po’ e diventiamo fratelli di sangue. gideon: e poi organizziamo dei pigiama party. io: in giardino. gideon: e non invitiamo le ragazze. io: quali ragazze? gideon: le ragazze ipotetiche che non invitiamo. io: ci arrostiremo i marshmallow sul fuoco?
gideon: tu cosa ne dici? certo che sì, pensavo io. gideon: lo sai che sei pazzo, vero? io: è una novità? gideon: solo un pazzo farebbe quello che stai per fare. io: è stata un’idea tua. gideon: però sei tu che lo farai. io: vedremo. ed era strano perché mentre viaggiavamo non era a gideon o a tiny che pensavo, ma a maura. in quell’auto con gideon, completamente a mio agio con me stesso, non potevo fare a meno di pensare che questo era quello che lei voleva da me. era quello che aveva
sempre voluto da me. e non sarebbe mai successo. però per la prima volta ho capito perché ci provava tanto. e perché ci provava tanto anche tiny. ora io e gideon siamo in piedi sul fondo del teatro. io mi guardo attorno per vedere chi altro c’è, ma al buio non si capisce molto. l’altalena resta sul fondo del palco mentre un coro di ragazzi vestiti da ragazzi e ragazze vestite da ragazzi vi si allinea davanti. capisco che si tratta di una parata degli ex di tiny perché mentre si allineano cantano coro: noi siamo la parata degli ex! non ho alcun dubbio: l’ultimo ragazzo sono io (è tutto vestito di nero e ha
un’aria truce). iniziano tutti a cantare le battute con cui lo hanno lasciato ex 1: sei troppo appiccicoso ex 2: sei troppo canticchioso ex 3: sei troppo giulivo ex 4: sono troppo passivo ex 5: restiamo amici ex 6: non ti piacciono i mici ex 7: un altro ho incontrato ex 8: quel che è stato è stato ex 9: non sento la scintilla ex 10: mi fai dormire come la camomilla ex 11: non mi fai sesso ex 12: ho troppi dubbi per adesso ex 13: ho altre cose da fare
ex 14: ho altri tizi da scopare ex 15: era tutto nella tua testa ex 16: non ci staresti sulla mia fiesta ex 17: non sei il mio sogno ex 18: sei innamorato del mio bisogno. ecco. centinaia di messaggi e conversazioni, migliaia e migliaia di parole dette e spedite, tutto ridotto a una battuta. è questo che diventano le relazioni? una versione ridotta del dolore e tutto il resto fuori? è più di questo. lo so che è più di questo. e forse lo sa anche tiny, perché tutti gli altri ex escono di scena a parte l’ex numero 1 e capisco che li passeremo in rassegna tutti quanti e forse ognuno avrà
qualcosa da insegnare a tiny e al pubblico. visto che ci metteremo un po’ ad arrivare all’ex numero 18, immagino che sia un buon momento per chiamare l’altro will grayson. ho paura che avrà il telefono spento ma, quando esco nel foyer per telefonare (lasciando gideon a tenermi il posto), lui risponde e dice che arriverà in un minuto. lo riconosco subito, anche se in lui c’è qualcosa di diverso. io: ciao. a.w.g.: ciao. io: un successone, eh? a.w.g.: direi di sì. sono contento che tu sia venuto.
io: anch’io. perché, vedi, ho avuto un’idea. be’, in realtà ce l’ha avuto un mio amico, ma ecco cosa faremo... glielo spiego. a.w.g.: è una cosa da pazzi. io: lo so. a.w.g.: pensi che siano davvero qui? io: hanno detto di sì. e anche se non ci sono, almeno ci siamo tu e io. l’altro will terrorizzato.
grayson
sembra
a.w.g.: tu vai per primo. io ti starò dietro, non penso di farcela ad andare per primo. io: affare fatto.
a.w.g.: è una pazzia totale. io: ma per tiny ne vale la pena. a.w.g.: sì, per tiny ne vale la pena. so che dovremmo tornare a vedere lo spettacolo, ma c’è una cosa che gli voglio chiedere, adesso che ce l’ho davanti. io: ti posso chiedere una cosa personale, da will grayson a will grayson? a.w.g.: mmm... certo. io: a te sembra che sia cambiato qualcosa? cioè, da quando ci siamo incontrati? a.w.g. ci pensa sopra per un istante e poi annuisce.
a.w.g.: sì. mi sa che non sono più il will grayson di prima. io: neanche io. apro la porta dell’auditorium e sbircio dentro. sono già all’ex numero 5. a.w.g.: sarà meglio che io corra dietro le quinte. jane si chiederà dove sono finito. io: jane, eh? a.w.g.: sì, jane. è così carino. gli compaiono in faccia tipo duecento emozioni diverse quando dice il suo nome, emozioni che vanno dall’ansia estrema alla beatitudine assoluta.
io: be’, andiamo ai nostri posti. a.w.g.: buona fortuna, will grayson. io: buona fortuna a tutti noi. sgattaiolo dentro e trovo gideon, che mi fa il riassunto di quello che sta succedendo. gideon (sussurrando): l’ex 6 era un grande appassionato di sospensori da football. al limite del feticismo, direi. quasi tutti gli ex sono così: bidimensionali. ma si capisce subito che è una scelta consapevole: tiny sta dicendo che non è mai riuscito a conoscere tutte le loro dimensioni, che era così preso dall’amore da non darsi mai il tempo di pensare a cosa amava. è
terribilmente vero, almeno per gli ex come me. (vedo qualche altro ragazzo agitarsi sulla poltrona, per cui è probabile che io non sia l’unico ex tra il pubblico.) passiamo in rassegna i primi diciassette ex e a quel punto c’è un blackout e l’altalena viene spostata al centro del palco. all’improvviso tiny è sotto i riflettori, sull’altalena, ed è come se la mia vita fosse tornata indietro e la potessi rivedere, solo in forma di musical. è esattamente come me la ricordo... a parte il fatto che non lo è. e tiny sta inventando un nuovo dialogo tra di noi. io-sul-palco: mi dispiace tanto. tiny: no, non dispiacerti. io mi sono
innamorato di te. e so cosa succede sempre alla fine dell’amore: si cade. io-sul-palco: è solo che mi arrabbio tanto con me stesso. sono la cosa peggiore che ti potesse capitare. sono la tua bomba a mano senza sicura. tiny: mi piace un sacco la mia bomba a mano senza sicura. è buffo... penso che forse se avessi detto quelle cose e lui avesse detto quelle cose forse sarebbe andato tutto in modo diverso, perché avrei saputo che lui mi capiva, almeno un po’, ma credo che avesse bisogno di scriverle in forma di musical per vederle. o dirle. io-sul-palco: be’, a me non piace essere la tua bomba a mano senza sicura.
tiny adesso sta guardando il pubblico. non può sapere che sono qui, ma forse mi sta cercando lo stesso. tiny: io voglio solo che tu sia felice. con me o con qualcun altro o anche con nessuno. voglio solo che tu sia felice. voglio solo che ti piaccia la tua vita. la tua vita così com’è. e che piaccia anche a me. è difficile accettare l’idea che la vita è cadere, cadere e atterrare e cadere e atterrare. lo so che non è l’ideale. lo so. sta parlando con me. sta parlando con se stesso. forse non c’è nessuna differenza. ci arrivo. lo capisco.
e poi mi perde. tiny: ma c’è una parola, una parola che mi ha insegnato una volta phil wrayson: weltschmerz. è la depressione che provi quando il mondo così com’è non si allinea con il mondo come pensi che dovrebbe essere. io vivo in un immenso oceano di weltschmerz del cazzo, sai? e anche tu. e tutti quanti. perché tutti pensano che dovrebbe essere possibile continuare a cadere per sempre, sentire l’aria sulla faccia mentre cadi, l’aria che ti stira la faccia in un grande sorriso del cazzo, e dovrebbe davvero essere possibile, si dovrebbe poter cadere per sempre. e io penso: no.
davvero. no. perché ho passato la mia vita a cadere. non nel modo di cui sta parlando tiny. lui sta parlando di amore. io parlo della vita. nel mio modo di cadere non si atterra mai. si colpisce il terreno. forte. e si muore. o si preferirebbe essere morti. così il tempo che passi a cadere è il peggiore del mondo. perché senti di non avere alcun controllo. perché sai come finirà. io non voglio cadere. voglio soltanto stare in piedi sulla terraferma. e la cosa strana è che adesso ho la sensazione di farlo. perché sto cercando di fare qualcosa di buono. proprio come tiny sta cercando di fare qualcosa di buono.
tiny: tu sei ancora una bomba a mano senza sicura davanti a un mondo imperfetto. no, sono una bomba a mano senza sicura davanti a un mondo crudele. ma ogni volta che viene fuori che ho torto, la sicura torna un po’ più al suo posto. tiny: e io sono ancora... ogni volta che mi succede questo, ogni volta che atterro, mi fa male come se non mi fosse mai successo prima. adesso sta oscillando più forte sull’altalena, scalciando con le gambe. l’altalena cigola. l’impressione è che debba crollare da un momento all’altro sotto il suo peso, ma tiny continua a
scalciare e a tirare le catene con le braccia e a parlare. tiny: perché non possiamo fermare la weltschmerz. non possiamo smettere di immaginare il mondo come potrebbe essere. ed è una figata! è la cosa che mi piace di più di noi! quando arriva in cima all’arco le luci non riescono a illuminarlo e lui urla al pubblico dal buio. poi torna visibile, la schiena e il culo che corrono verso di noi. tiny: e se vuoi avere l’amore, devi accettare anche di cadere. è per questo che amo noi due!
in cima all’arco, sopra le luci, tiny salta giù dall’altalena. è così agile e veloce che a malapena lo vedo, ma lui si solleva con le braccia e tira su le gambe e poi si lascia andare e si attacca a una trave. l’altalena cade prima di lui. e tutti - il pubblico, il coro - sussultano. tiny: perché noi sappiamo cosa succede quando cadiamo! la risposta naturalmente è che atterriamo sul culo. che è esattamente quello che fa tiny. lascia andare la trave, precipita davanti all’altalena e crolla a terra. io sussulto e gideon mi afferra la mano. non capisco se il ragazzo che interpreta la mia parte sta recitando o no
quando chiede a tiny se sta bene. in ogni caso tiny lo allontana, indica il direttore dell’orchestra e un momento dopo parte una canzone tranquilla, tutta note di piano ben separate. tiny riprende fiato durante l’introduzione e poi ricomincia a cantare. tiny: è tutta questione di cadere atterri e ti rialzi per poter cadere di nuovo. è tutta questione di cadere io non avrò paura di colpire quel muro di nuovo. sul palco è il caos. il coro cerca di cantare il ritornello. continuano a
cantare che è tutta questione di cadere, e poi tiny fa un passo avanti e parla direttamente con loro. tiny: forse questa sera avete paura di cadere e forse qui o da qualche altra parte c’è qualcuno a cui state pensando, qualcuno per cui vi state preoccupando, per cui state piagnucolando, cercando di capire se volete cadere o come e quando atterrerete, e io vi devo dire, amici miei, di smettere di pensare all’atterraggio, perché è tutta questione di cadere. è incredibile. è come se stesse fluttuando sopra il palco. tiny crede così tanto alle proprie parole. e io capisco cosa devo fare. devo aiutarlo a capire che l’importante è quello che credi, e
non quello che dici. devo fargli capire che l’importante non è cadere. è fluttuare. tiny chiede di accendere le luci in sala. si guarda attorno, ma non mi vede. deglutisco. gideon: pronto? la risposta a questa domanda sarà sempre no. ma devo farlo lo stesso. tiny: forse c’è qualcosa che paura di dire, o qualcuno che paura di amare, o un posto in cui paura di andare. farà male. farà perché è importante. no, penso. NO.
avete avete avete male
non deve fare male per forza. mi alzo in piedi. e poi sto quasi per tornare a sedermi. restare in piedi mi costa uno sforzo immenso. guardo gideon. tiny: ma io sono appena caduto e sono atterrato e sono ancora qui per dirvi che bisogna imparare ad amare la caduta. perché è tutta questione di cadere. tiro in fuori il mignolo. gideon lo stringe con il suo. tiny: cadete, per una volta. lasciatevi cadere! adesso tutti gli attori sono in scena. vedo che c’è anche l’altro will grayson,
con addosso dei jeans stropicciati e una t-shirt. accanto a lui c’è una ragazza che deve essere jane. porta una maglietta con scritto io sto con phil wrayson. tiny fa un gesto e all’improvviso tutti gli attori cantano. coro: stringimi più forte, stringimi più forte. e io sono ancora in piedi. incrocio lo sguardo con l’altro will grayson, che sembra nervoso ma sorride lo stesso. e vedo un po’ di persone fare un cenno del capo nella mia direzione. dio, spero che siano chi voglio che siano. all’improvviso, con un movimento teatrale delle braccia, tiny interrompe la musica. si sposta sul fronte del palco e il
resto della scena diventa buia. è solo lui, sotto i riflettori. guarda il pubblico. resta immobile per un istante. guarda. e poi chiude lo spettacolo dicendo tiny: mi chiamo tiny cooper. e questa è la mia storia. silenzio. tutti aspettano che il sipario si abbassi, che lo spettacolo sia finito per davvero, che parta l’applauso. ho meno di un secondo. stringo forte il mignolo di gideon. poi lo lascio andare. e alzo la mano. tiny mi vede. altre persone nel pubblico mi vedono. urlo io: TINY COOPER!
ecco. e adesso spero che funzionerà. io: mi chiamo will grayson. e ti sono grato, tiny cooper! adesso mi guardano tutti, e molti di loro sono confusi. non capiscono se anche questo fa parte dello spettacolo. cosa posso dire? gli sto dando un nuovo finale. adesso si alza un tizio tra i venti e i trent’anni con un gilè da fighetto. mi guarda per un secondo, sorride, poi si volta verso tiny e dice tizio: anche io mi chiamo will grayson. vivo a wilmette. e anche io ti sono grato, tiny cooper!
poi tocca a un settantanovenne in ultima fila. vecchietto: mi chiamo william t. grayson, ma potete chiamarmi will. e ci puoi scommettere la camicia che ti sono grato, tiny cooper. grazie google. grazie internet. grazie elenchi telefonici. grazie miei omonimi. donna sulla quarantina: ciao! mi chiamo wilma grayson, di hyde park. e ti sono grata, tiny cooper. bambino di dieci anni: ciao. io sono will grayson quarto. mio papà non è potuto venire, però ti siamo grati tutti e due, tiny cooper.
ce ne dovrebbe essere un altro. uno studente della northwestern. c’è una pausa drammatica in cui tutti si guardano attorno. e poi si alza LUI. se frenchy’s potesse metterlo in bottiglia e venderlo come porno, è probabile che nel giro di un anno diventerebbero proprietari di mezza chicago. è quello che succederebbe dopo nove mesi se abercrombie si scopasse fitch. è come una star del cinema, un nuotatore olimpionico e un modello tutti insieme. porta una camicia argentata e dei pantaloni rosa. il tutto pieno di lustrini. non è per niente il mio tipo, ma... divinità gay: io sono will grayson. e ti
amo, tiny cooper. alla fine tiny, che è rimasto incredibilmente senza parole per tutto il tempo, riesce a dire qualcosa. tiny: 847-555-3982. divinità gay: 847-555-7363. tiny: QUALCUNO ME LO SCRIVE DA QUALCHE PARTE, PER FAVORE? metà del pubblico annuisce. di nuovo il silenzio. in effetti è un po’ imbarazzante. non so se sedermi o cosa. poi dalla parte buia del palco arriva qualche rumore e l’altro will grayson esce dal coro. si avvicina a tiny e lo guarda negli occhi.
a.w.g.: sai chi sono. e ti amo, tiny cooper. anche se non nello stesso modo in cui ti potrebbe amare quel tizio con i pantaloni rosa. e poi arriva la ragazza che deve essere jane. ragazza: io non sono will grayson. e ti sono grata di brutto, tiny cooper. è la cosa più strana che abbia mai visto. uno a uno, tutti quelli che sono sul palco dicono a tiny cooper che gli sono grati (anche un tizio che si chiama phil wrayson... quante possibilità c’erano?), e poi si unisce anche il pubblico. una fila dopo l’altra. alcuni lo dicono. altri lo cantano. tiny sta piangendo. io sto
piangendo. stanno piangendo tutti. perdo il conto di quanto tempo ci vuole. poi, quando è tutto finito, parte l’applauso. è l’applauso più forte che abbia mai sentito. tiny cammina fino al limite del palco. la gente gli lancia dei fiori. ci ha uniti. lo sentiamo tutti. gideon: sei stato bravo. gli stringo ancora il mignolo. io: sì, siamo stati bravi. faccio un cenno del capo all’altro will grayson, sul palco. lui risponde allo stesso modo. c’è qualcosa tra noi due. ma volete la verità?
c’è qualcosa tra tutti noi. è la nostra maledizione e la nostra benedizione. è la nostra prova e il nostro errore. e il nostro quella cosa. l’applauso continua. guardo tiny cooper. sarà anche un ciccione, ma in questo momento sta fluttuando.
ammissioni Ammettiamo che Jodi Reamer è un’agente che spacca e che potrebbe batterci tutti e due contemporaneamente a braccio di ferro. Ammettiamo che scaccolare gli amici è una scelta personale che potrebbe non essere indicata per tutti. Ammettiamo che questo libro probabilmente non esisterebbe se Sarah Urist Green non avesse riso tanto quando le abbiamo letto i primi due
capitoli un sacco di tempo fa in un appartamento molto, molto lontano. Ammettiamo di essere rimasti un po’ delusi quando abbiamo scoperto che la marca di abbigliamento Penguin non ha niente a che fare con la casa editrice Penguin, perché speravamo in uno sconto sulle polo. Ammettiamo la favolosità non adulterata di Bill Ott, Steffie Zvirin e della matrigna delle favole di John, Ilene Cooper. Ammettiamo che - proprio come non si potrebbe vedere la luna se non fosse per il sole - non vi sarebbe possibile vedere noi se non fosse per la magnifica
e continua luminosità dei nostri amici scrittori. Ammettiamo che uno di noi ha copiato al test di ammissione al college, ma non lo ha fatto apposta. Ammettiamo che i nerdfighter sono fatti di figume. Ammettiamo che essere come Dio ti ha creato non può alienarti l’amore di Dio. Ammettiamo che abbiamo fatto in modo di finire di scrivere questo libro giusto in tempo per convincere la nostra magnifica editor, Julie Strauss-Gabel, a dare a suo figlio il nome di Will
Grayson, anche nel caso fosse una bambina. Il che è decisamente ingiusto, perché probabilmente dovremmo essere noi a dare il suo nome ai nostri bambini. Anche se fossero maschi.
Indice Frontespizio Colophon Capitolo uno Capitolo due Capitolo tre Capitolo quattro Capitolo cinque Capitolo sei Capitolo sette Capitolo otto Capitolo nove Capitolo dieci Capitolo undici Capitolo dodici Capitolo tredici
Capitolo quattordici Capitolo quindici Capitolo sedici Capitolo diciassette Capitolo diciotto Capitolo diciannove Capitolo venti Ammissioni